ROMA. Oltre due milioni di lavoratori in nero, un’economia sommersa che vale quasi 42 miliardi euro l’anno con un’evasione complessiva di 25 miliardi tra imposte e contributi. La Fondazione studi dei Consulenti del lavoro ha fatto un po’ di calcoli su dati Inps, Inail e ministero del Lavoro (basandosi su una ipotetica retribuzione giornaliera di 86,80 per 241 giornate l’anno, un dato certo in molti casi lontanissimo dalla realtà) e il mancato gettito corrisponde all’1,5% del prodotto interno lordo, si tratta di «cifre vicine a quelle di una Legge di Stabilità», osserva il presidente Rosario De Luca. In media, su «ogni tre imprese ispezionate, si trova una persona impiegata, ma non registrata».
Anche secondo uno studio dell’Istat i lavoratori in nero in Italia sono poco meno del 10% degli occupati (che in totale sono circa 2,2 milioni al momento), ma il tasso è più alto per le donne (si arriva all’11% contro il 9% degli uomini), e gli stranieri, con una situazione più grave per chi arriva dai Paesi dell’Unione Europea. Conta anche il livello d’istruzione: per chi si è limitato a finire la scuola primaria si sfiora il 20%, ma comunque anche chi si è fermato al diploma di scuola media superiore il tasso è più alto della media, all’11,1%. Il settore con il tasso più alto non è l’agricoltura, al centro del dibattito sul caporalato e sulle morti nei campi in Puglia, anche se il 21,6% dei lavoratori del settore è irregolare. In testa c’è invece il lavoro domestico, quasi al 30%, seguito dalle attività ricreative e di intrattenimento (25,8%). In nero anche il 16,1% di cuochi e camerieri, e il 12,8% dei muratori. Le concentrazioni maggiori di lavoratori irregolari si riscontrano in Calabria e in Campania, con un tasso superiore al 19%, mentre in Sicilia si arriva comunque al 15%.