Sharing economy. Il prezzo della condivisione

by redazione | 14 Agosto 2015 15:50

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FORSE Marchionne dovrebbe ridere meno. Anche Paris Hilton o, meglio, gli adulti di famiglia dovrebbero guardarsi le spalle. Perfino a casa Prada c’è motivo di preoccuparsi. La ripresa economica dopo la lunga crisi alimenta le speranze di pingui profitti, ma, per molti dei giganti di oggi, i tempi belli potrebbero anche non tornare. Li insidia un nemico nuovo e inaspettato, il miracolo del decennio: la sharing economy. Uber, Airbnb, eBay pongono una sfida antropologica: se usare una cosa è meno importante di possederla, cosa resta dei modelli di consumo che ruotano intorno alla proprietà esclusiva di un oggetto del desiderio («alla faccia dei vicini») sui quali buona parte del grande capitale fonda il suo successo? C’è chi vede nell’economia che condivide le cose un nuovo stile di vita, più allegro e solidale. Anzi, come proclama un libro appena uscito in Inghilterra, è l’alba del postcapitalismo, all’insegna di maggiore partecipazione, maggiore scelta, maggiore giustizia sociale. O, invece, è vero il contrario: una nuova forma di sfruttamento, che rende ancora più volatili lavori precari e malpagati, come rivendicano i nemici di Uber? Tutte domande affascinanti che, tuttavia, vengono dopo un quesito preliminare: dove la sharing economy progredisce, cosa si lascia alle spalle? Macerie è dire troppo. Ma l’economia dell’uso temporaneo è una specie di falciatrice che tosa, ridimensiona, miniaturizza fatturati e guadagni dei protagonisti del vecchio modo di vendere. L’amputazione, per chi pilota i giganti dell’auto o del lusso, rischia di essere dolorosa. Nel caso dell’auto, un mercato che viene brutalmente ridotto alla metà.
La previsione è degli analisti di una grande banca d’investimento, la Barclays, che, all’impatto della sharing economy sui protagonisti tradizionali hanno appena dedicato un dettagliato rapporto. L’effetto, dicono, è alimentato dalla rivoluzione di internet e, poi, dei telefonini ed è inarrestabile, perché è inarrestabile l’ascesa di chi è nato insieme a quella rivoluzione: i nativi digitali, ovvero i nati dopo il 1980, il cui reddito disponibile aumenterà ( negli Usa) del 20% nei prossimi anni, cioè oltre 50 miliardi di dollari. Che i nativi digitali spenderanno, in misura crescente, come hanno fatto finora, all’insegna della condivisione. Un nuovo parametro che ha già devastato il mondo dell’intrattenimento, dove Netflix e Spotify hanno desertificato, sostituendo l’abbonamento mensile all’acquisto singolo, i mercati dei video e della musica. Ma che ora intacca quel moloch dell’era industriale che è l’automobile. Le avvisaglie dello scenario disegnato dalla Barclays sono già visibili. Anche in Italia, negli ultimi anni, il consumo di benzina e di gasolio è drasticamente diminuito, come anche il parco macchine circolanti. Ma gli effetti sono vistosi negli Stati Uniti dove si riduce il numero di patenti di guida e il mercato dell’auto non decolla, dopo la crisi, come molti si aspettavano. La stessa sonnacchiosa reazione dei mercati occidentali alla sferzata del crollo del prezzo del petrolio indica una minore centralità del carburante nella gerarchia dei consumi. In America come in Europa, le alternative sono sempre di più: al taxi (Uber), all’auto in città (Car2go) al viaggio fuori città (Blablacar). Il risultato, dice la Barclays, è un collasso del mercato: il parco macchine è destinato a ridursi del 60%, la domanda di auto nuove del 40. Per le case automobilistiche americane, significa veder volatilizzarsi 200 miliardi di dollari di fatturato. D’altra parte, secondo il rapporto, ogni singola auto condivisa può rimpiazzare 9 macchine possedute. Se quest’auto condivisa viene utilizzata in pool può prendere il posto di 18 vetture vecchio stampo. Nell’era dei nativi digitali sta per finire il garage di casa con due o più automobli. In media, scoperta la possibilità di ottenere con facilità una macchina quando serve, invece di tenerla inutilizzata in parcheggio per larga parte della giornata, la famiglia americana tipo passerà dal possesso di 2,1 auto ad 1,2 veicoli. In altre parole, le famiglie americane avranno metà delle macchine di oggi. In un settore dove la concorrenza è già spietata e la sopravvivenza garantita a pochi, il numero di case automobilistiche superstiti, in questo scenario, sarà ridotto al minimo.
Pesante anche l’impatto previsto sugli alberghi. La crescita esponenziale di Airbnb, arrivata l’anno scorso a 37 milioni di stanze prenotate è solo all’inizio. Barclays prevede che l’offerta di stanze in case private tramite la piattaforma possa arrivare a 177 milioni di prenotazioni nel giro di un paio d’anni. Già oggi, il 10% dell’offerta di alloggio a Parigi e il 17% a New York passa attraverso Airbnb. Assai meno, però, nelle stesse città, le stanze effettivamente occupate, che non superano il 3-8%. In effetti, Airbnb e i siti simili (come HomeAway) si rivolgono a una clientela soprattutto turistica e non d’affari (il nocciolo duro del fatturato alberghiero). Inoltre, sono concentrati in alcune città dove, però, non sono presenti nelle zone di maggior pregio, a scarsa densità di abitazioni. Infatti, Barclays prevede che il fatturato delle maggiori catene alberghiere continui ad aumentare in questi anni (dai 408 miliardi di dollari del 2014 ai 512 del 2017). Ma questa espansione è significativamente erosa dalla crescita dell’offerta non tradizionale che, nel2017,arriverà ad indella tercettare 74 miliardi di dollari, soldi che non arriveranno mai nei conti d’albergo. L’effetto, per Barclays, sarà anche più pesante in Europa, dove le catene alberghiere contano sulla clientela turistica, più di quanto avvenga negli Stati Uniti: la perdita di fatturato, da questa parte dell’Atlantico, oscillerà fra il 5 e il 9%.
A pagare assai più caro il conto della sharing economy sarà invece il settore dell’abbigliamento, soprattutto di lusso. Gucci, Vuitton, Prada, Ralph Lauren, Tiffany, i colossi dell’acquisto esclusivo sono quelli che hanno più da perdere dal boom dell’usato. Oggi, spiega Barclays, il mercato dell’abbigliamento (accessori compresi) vale 400 miliardi di dollari, di cui 52 miliardi incassati online. L’usato online vale già 34 miliardi di dollari. Secondo gli analisti della banca, il consumatore americano medio spende 1.700 dollari l’anno per vestirsi. Gli strumenti della sharing economy possono tagliare 700 dollari da questo conto, con risparmi fino al 90% su quanto viene investito nei prodotti di lusso. Il giro di vendite, solo su eBay, solo di prodotti Ralph Lauren e Tiffany supera i 50 milioni di dollari. Perché comprarsi una collana di perle di Tiffany a prezzo pieno, quando la si può avere — uguale — a metà prezzo su eBay e siti simili? Anzi, altro che metà prezzo. Solo il 40% del catalogo di Tiffany costa meno di 1000 dollari. Ma su eBay, il 40% dei gingilli più famosi al mondo costa meno di 250 dollari e un buon 10% sta sotto i 100 dollari, una categoria di prezzo che la casa considera, nei suoi cataloghi, inesistente, altrimenti i suoi prodotti non avrebbero il fascino dell’esclusivo. In Europa, per Prada, Gucci e Vuitton non va meglio. Metà delle borsette di lusso offerte su eBay costano meno di 500 dollari, contro i mille dollari del prezzo pieno. Il vocabolario non tradisce: nell’economia della condivisione, non c’è posto per l’esclusivo.
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