Il disgelo Washington-Avana e poi Washington-Teheran sta provocando un effetto “caduta del Muro”. I precedenti storici, ancora più importanti, risalgono ormai al secolo scorso. 1989: caduta del Muro di Berlino, disintegrazione della cortina di ferro, fine della guerra fredda. Diciassette anni prima, nel 1972, era caduta la Grande Muraglia maoista: la visita del presidente Richard Nixon in Cina aveva inaugurato la normalizzazione dei rapporti fra Pechino e l’Occidente.
Iran e Cuba sono nazioni più piccole, e tuttavia si ripropone per loro lo stesso interrogativo. Quante opportunità nuove vengono create dalla caduta degli ultimi muri? Quante aspettative andranno invece deluse? I capitoli precedenti sono stati ricchi di sorprese. Per tutti.
La caduta del muro ideologico che ci separava dalla Cina non ebbe effetti immediati: non sul tenore di vita e le abitudini dei cinesi o degli occidentali. Ci vollero le riforme economiche di Deng Xiaoping, avviate dal 1979; poi l’accesso della Repubblica Popolare all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nel 2001. Da allora sì, il ritmo del cambiamento diventa frenetico. Quindici anni fa, alla vigilia del suo ingresso nel Wto, la Cina aveva un ceto medio di soli 18 milioni di consumatori, un mercato molto piccolo. Oggi la sua middle class include mezzo miliardo di persone, con redditi annui fra i 9mila e i 34mila dollari. Alla vigilia dell’ingresso nel Wto, una fazione del partito comunista cinese si opponeva a quell’operazione, convinta che la Cina si sarebbe fatta colonizzare, invadere dai nostri prodotti. Oggi il bilancio dei vincitori e vinti è molto più complicato. Il capitalismo americano — con i suoi campioni come Apple — ha saputo sfruttare tutte le opportunità delle delocalizzazioni per rimpinguare i profitti. Lo stesso ha fatto l’industria tedesca: la Germania è l’unica nazione occidentale ad avere messo a segno anno dopo anno un robusto attivo commerciale con la Cina, grazie alla qualità delle sue tecnologie. Per l’Italia l’impatto è ambiguo. Il lusso made in Italy ha guadagnato nuovi sbocchi sul mercato cinese; ma settori tradizionali come il tessile-abbigliamento, il calzaturiero, hanno visto rattrappirsi la propria base produttiva e occupazionale, trasferita nei paesi emergenti.
La caduta del Muro di Berlino fa sentire pienamente i suoi effetti soprattutto dal 2004, l’anno in cui otto paesi ex-comunisti vengono ammessi a pieno titolo nell’Unione europea. Sono nuovi sbocchi ma anche nuovi concorrenti. Ecco un dato che fa riflettere, relativo alla Gran Bretagna (dove il dibattito su questo tema è infuocato in vista del referendum sulla possibile uscita dall’Unione): dall’anno 2004 ad oggi si sono riversati nel Regno Unito 1,5 milioni di immigrati provenienti dall’Europa centro-orientale. È il più grande movimento migratorio registrato in Europa in tempo di pace. Numeri simili in Germania, dove l’afflusso iniziò ancora prima: con l’unificazione tedesca e poi i profughi dalle guerre balcaniche. Il bilancio della caduta del Muro sui lavoratori dell’Europa occidentale è controverso: in Inghilterra gli “eurofobi” esibiscono le prove che la legislazione sul salario minimo e i diritti dei dipendenti è stata aggirata sistematicamente grazie all’afflusso di manodopera a buon mercato, soprattutto dalla Polonia. Il dibattito potrebbe essere rilanciato tra qualche anno in Italia… per l’arrivo in massa di medici cubani e informatici iraniani. Due settori dove la competizione dei “cervelli” potrebbe riservarci delle sorprese, da Teheran o dall’Avana.