San Giorgio Jonico, bracciante stroncata dal caldo e dalla fatica durante la raccolta
Si muore nelle campagne. Come se fosse normale, inevitabile, il giusto pegno da pagare per avere i pomodori o l’uva in tavola. Si muore nel silenzio, senza scalpore. L’ultima a cadere sotto il sole è stata Paola, 49 anni. È diventata un fantasma, per settimane la notizia non è trapelata. Il cuore della bracciante di San Giorgio Jonico si è fermato la mattina del 13 luglio, sotto un tendone per l’acinellatura dell’uva, nelle campagne di Andria, in contrada Zagaria.
A diffondere la notizia è stata ieri la Flai Cgil Puglia rendendo pubblica una storia che mostra più di qualche lato oscuro. «Quel giorno — ha dichiarato Peppino Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia — Paola è uscita da casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare a lavoro ed è tornata in una cassa da morto». È stata sepolta il giorno dopo, sembra senza autopsia e con il nullaosta “telefonico” dato dal magistrato di turno. Il pm non si è recato sul posto perché, riferisce la polizia di Andria, il parere del medico legale è che si sia trattato di una «morte naturale, forse un malore per il caldo eccessivo». Non ce l’ha fatta a sopportare il caldo di quel tendone che, nei giorni peggiori, può superare i 40 gradi.
«Paola era uscita fuori dal tendone — racconta Deleonardis — poco prima di accasciarsi al suolo. Solitamente, l’acinellatura è tra i lavori pagati meno in agricoltura: 27–30 euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52». Secondo la ricostruzione del sindacato, Paola sarebbe stata trasportata direttamente al cimitero di Andria senza l’intervento del 118. In assenza di un referto e soprattutto di una autopsia, è difficile ricostruire il reale motivo del decesso. La morte della donna, però, riaccende inevitabilmente i riflettori su un settore, quello agricolo, caratterizzato da sfruttamento ai limiti della schiavitù.
Paola, denuncia il sindacato, è morta nell’assordante silenzio delle campagne pugliesi. «Lo stesso silenzio, spesso vicino all’omertà, che circonda le oltre 40mila donne italiane vittime del caporalato pugliese, spesso camuffato da agenzie di viaggi o da lavoro interinale — sostiene sempre Deleonardis. Donne trasportate con gli autobus su e giù per tutta la Regione, dalla provincia di Taranto alle campagne del nord della Puglia».
Dieci giorni fa era toccato a Mahamat perdere la vita per poche decine di euro nei campi pugliesi. È morto alle 14, presumibilmente dopo 9 ore di lavoro sfiancante. Forse anche a cottimo, 3,5 euro a cassone. Senza assunzione. «L’infortunio mortale di Magamat — ricorda la Flai Cgil — è avvenuto nell’azienda Mariano in provincia di Lecce, già oggetto del Processo Saber che vede imputati varie aziende per riduzione in schiavitù e caporalato». Paola, invece, quel giorno stava lavorando presso l’azienda Ortofrutta Meridionale della famiglia Terrone, che ha 250 dipendenti e un fatturato che tocca i 12 milioni di euro.
Mahamat, sudanese. Paola, italiana. Accomunati da una morte simile e dal bisogno. A Paola quei soldi servivano per crescere i figli. Pur di non perdere quel lavoro, che svolgeva da 15 anni, aveva rinunciato a qualsiasi azione legale contro chi non le pagava i contributi. Per lei neanche il “lusso” dell’assegno di disoccupazione qualora non avesse trovato occupazione per un periodo. Mahamat e Paola. Gli ultimi che pagano per tutti.
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