Perché il lavoro non riparte?

Perché il lavoro non riparte?

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ROMA Non si può dire che il governo non vi abbia investito parecchio: circa 40 miliardi in quattro anni (2015-19). Una quindicina sono destinati agli sgravi contributivi triennali sulle assunzioni a tempo indeterminato fatte nel 2015, il resto alla deduzione del costo del lavoro dall’imponibile Irap. Quaranta miliardi che il governo Renzi ha deciso, alla fine del 2014 con la legge di Stabilità, di investire sull’occupazione.
Il tutto a corredo di una riforma legislativa anch’essa coraggiosa, il Jobs act , che ha mandato definitivamente in soffitta l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tutti coloro che vengono assunti dal 7 marzo 2015, giorno in cui è entrato in vigore il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che rende molto più facili i licenziamenti. Adesso, disse il governo non appena varata la manovra, le aziende non hanno più scuse per non assumere. Purtroppo, però, le aspettative sono andate deluse. L’occupazione non è aumentata. E il paradosso è che il governo rischia di restare intrappolato in questo meccanismo di sconti che ha messo in piedi, col risultato di dover rifinanziare gli sgravi — è probabile che il miliardo e 900 milioni stanziato quest’anno per la decontribuzione non basti — senza raccogliere i frutti sperati.
Le riforme
Ma andiamo con ordine. Alla fine del 2014, cioè prima della legge di Stabilità e del Jobs act , lavoravano in Italia 22,3 milioni di persone. Da gennaio (gli sgravi sono partiti il primo dell’anno) a giugno abbiamo assistito a un’oscillazione minima mese per mese intorno a questo livello, con il dato diffuso ieri dall’Istat che parla di 22milioni 297mia occupati, 22mila in meno di maggio. Variazioni che non intaccano il disastro provocato dalla lunga crisi. Basti dire che prima che questa si abbattesse sull’occupazione, in Italia lavoravano oltre un milione di persone in più di ora. Il picco fu registrato dall’Istat nell’aprile del 2008, con 23,2 milioni di occupati. E i disoccupati erano 1,7 milioni, quasi la metà dei 3,2 milioni attuali. Il Fondo monetario internazionale, qualche giorno fa, ha avvertito che per riportare in Italia il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi ci vorranno almeno 20 anni. Gli esperti di Washington, ha replicato il governo, non tengono conto degli effetti delle riforme e degli incentivi. Solo che essi, dati alla mano, ancora non si vedono.
Consumi deboli
Che fare allora? Anche chi, come per esempio l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi (Ncd), è stato uno strenuo sostenitore dell’abolizione dell’articolo 18 e del taglio del costo del lavoro, invita il governo a «riflettere» sugli «effetti modesti» ottenuti e suggerisce di «rianimare» la domanda interna perché quella estera «non basta». Sulla stessa linea le associazioni dei commercianti, che osservano come il permanere dell’inflazione intorno allo zero virgola dimostri che i consumi sono ancora deboli. Insomma, dopo averle tentate tutte dal lato dell’offerta adesso bisognerebbe appunto spingere la domanda. Già, ma come, visto che neppure gli 80 euro al mese, costati 10 miliardi all’anno, hanno prodotto grandi risultati? Con un ulteriore maxitaglio delle tasse nei prossimi tre anni,ha deciso il presidente del Consiglio Matteo Renzi, partendo dalla prima casa, passando ancora per l’Irap (e l’Ires) e finendo con l’Irpef.
Il nodo coperture
Intanto, però, ancora prima di cercare le coperture necessarie a finanziare questo piano (35 miliardi di euro nel triennio 2016-19) il governo rischia di dover trovare quelle per rifinanziare la decontribuzione delle assunzioni. Infatti, per quest’anno, sono stati stanziati 1,9 miliardi presupponendo di dover incentivare un milione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Ma visto che fino a maggio sono stati agevolati più di mezzo milione di contratti, i tecnici stimano che, proiettando nei successivi sette mesi il trend osservato, alla fine le assunzioni alle quali si applicherebbe la decontribuzione sarebbero quasi 1,4 milioni. Una seconda proiezione è più prudente, ma entrambe stimano una spesa maggiore di quella prevista dal governo: da 500 milioni a un miliardo di euro. Al ministero dell’Economia frenano: i conti si faranno alla fine, dicono, e poi magari ci fossero più contratti da agevolare, significherebbe un miglioramento dell’economia e maggiori entrate. Insomma, trovare altre risorse non sarebbe un problema, sostengono.
Taglio degli incentivi
Subito dopo, però, il governo dovrà decidere che fare per il 2016. Lo sgravio triennale vale infatti solo per le assunzioni fatte nel 2015. Per evitare un rimbalzo negativo si stanno già studiando forme limitate di proroga degli sgravi. Che per esempio potrebbero andare solo alle assunzioni aggiuntive, quelle che aumentano l’organico. Del resto, secondo le stesse stime del governo, l’incentivo andrà quest’anno anche a 637mila persone che comunque sarebbero state assunte mentre su altri 363mila contratti l’agevolazione scatterà perché rapporti di lavoro a termine vengono trasformati a tempo indeterminato. Che poi è il maggior risultato ottenuto finora: le aziende ricorrono più di prima al contratto stabile (perché incentivato). Ma continuano a non assumere se non hanno ordini e clienti da soddisfare. Cioè, se l’economia non cresce.
Enrico Marro


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