by redazione | 13 Agosto 2015 9:52
Dopo tanti anni di crescita, di critiche internazionali, la Cina sente vicino l’ingresso nel mondo della finanza che conta. Il plauso del Fmi alla sua recente doppia manovra di svalutazione, riapre la partita sull’entrata dello yuan nel paniere delle valute di riserva dei forzieri delle banche centrali (creato nel 1969 contro il pericolo di crisi di liquidità).
Significherebbe ottenere due risultati: uno di natura simbolica, entrare nell’ambito dei «grandi» (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina). L’altro significherebbe lo status di «economia di mercato»: un passaggio storico.
Una specie di «club» che certificherebbe che lo yuan è una valuta di caratura davvero globale al pari del dollaro. E ieri Pechino ha risposte alle accuse occidentali. Ma quale guerra di valute, hanno detto i cinesi, «ci stiamo semplicemente aprendo al mercato».
C’è tutta la Cina in questo riassunto del comunicato con il quale la Xinhua — agenzia di stampa ufficiale del Pcc — ha detto la sua riguardo le svalutazioni, due in due giorni, dello yuan. Secondo Xinhua, il deprezzamento della moneta non avrebbe come scopo quello di sostenere l’export in difficoltà. Questa lettura, dicono a Pechino, «non regge» e le accuse di una guerra valutaria è «esagerata». La svalutazione dello yuan sarebbe invece il risultato di riforme che mirano a rendere la valuta cinese più orientata al mercato.
Riecheggiano le strategie più citate dell’arte della guerra cinese: attirare il nemico in profondità, per colpirlo nel suo punto più debole. Pechino sa che non potrà essere certo accusata di favorire una sua «apertura» maggiore al mercato e coglie la palla al balzo dei giudizi di Fmi, agenzie di rating e banche di affari, per affondare il colpo, tenere la barra dritta, annunciare una stabilizzazione alle porte e tutto sommato portarsi a casa il risultato.
Insomma, dicono a Pechino, ci avete detto per anni che avremmo dovuto lasciare ai movimenti del mercato la nostra moneta, anziché dirigerla in modo unilaterale da Pechino, e ora che la facciamo diventare «normale» (proprio come ha fatto Washington e l’Europa), improvvisamente diventa un problema? È che come al solito il tempismo ha la sua rilevanza, e non si tratta solo di economia.
Ieri la Banca centrale ha deciso di sforbiciare ancora il valore di riferimento dello yuan, diminuendolo di un ulteriore 1,62%. Poi ha assicurato che lo yuan si stabilizzerà e infine ha indetto una conferenza stampa per oggi, nella mattinata cinese.
A Pechino dunque gli animi sembrano molto rilassati, forti del sostegno ottenuto proprio dal Fmi. E che il Fondo monetario debba rivedere alcune posizioni è un dato di fatto (come ha sottolineato anche il Sole 24 ore); non a caso ieri il Fondo ha accolto con favore la scelta della Banca Centrale cinese perché il nuovo «meccanismo» — proprio come sostiene la Xinhua — permetterà al mercato «un ruolo maggiore». Secondo il Fmi una maggiore flessibilità nei tassi consentirà a + una rapida «integrazione nei mercati finanziari globali».
Come era stato rivelato al momento della nascita della banca di investimenti cinese (un fattore forse sottovalutato in queste ore), le responsabilità delle decisioni «improvvise» della Cina dipendono anche dal fatto che Pechino non è stata ascoltata in precedenza dalle grandi istituzioni finanziarie mondiali, per un’ovvia ragione: la volontà di Washington. Infatti, analizzando ancora prima delle cause, gli esiti di queste decisioni di Pechino, quali sono i soggetti che finiscono per avere potenzialmente dei problemi?
In prima battuta, per motivi strettamente economici, i paesi asiatici. Non a caso ieri il Vietnam si è premurato di annunciare l’allargamento della banda di oscillazione della sua moneta, il dong, per poterla indebolire dopo la svalutazione cinese, evitando così gli «impatti negativi e mantenere la competitività» (ormai la stessa Cina ha delocalizzato in altri paesi asiatici).
Poi ci sono gli europei, perché le merci cinesi diventano più competitive e perché i cinesi, forse, spenderanno meno. Poi ci sono i paesi che producono e vendono risorse, perché la perdita di valore dello yuan potrebbe influenzare — e in parte lo sta già facendo — mercati delle materie prime di cui la Cina in molti casi è primo importatore.
E infine ci sono i motivi geopolitici, quelli potenzialmente più rilevanti, ed eccoci agli Stati uniti. Come ha sottolineato Paul Mason di Channel Four a leggere gli eventi come se fosse in corso una guerra monetaria «contro» un paese, è stata proprio la Cina.
Il quantitative easing americano ha reso il dollaro ipercompetitivo così come in teoria avrebbe dovuto fare dell’euro la sua svalutazione (avvenuta anche nel corso di quest’anno).
Naturale dunque che la Cina abbia vissuto una sensazione di accerchiamento, per quanto non confessata, e abbia provveduto a rendere più competitiva la sua valuta. Pechino però ha reso la sua moneta «normale» in un momento in cui l’Europa stava riprendendosi, per quanto lentamente, e in un momento buono per il dollaro.
Inoltre il rinnovato vigore cinese teso a sostenere la propria posizione anche in ambiti internazionali, non fa che sottolineare come, al di là della salute della sua economia, gli equilibri mondiali sono ormai cambiati. E l’approvazione del Fmi non fa che confermare questa tendenza.
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