NEW YORK . «Non temete, non vi faremo male». Così si può riassumere il messaggio che ci manda Pechino. Al secondo giorno la svalutazione del renminbi si conferma: meno 1,6%, per un totale del 3,5% in sole due sedute. Non è tanto se paragonato ai grandi riallineamenti valutari che nell’arco di mesi o anni possono imprimere variazioni superiori al 20%. Ma il terreno perso dal renminbi è tanto in così poco tempo, e alimenta attese di un sisma monetario ben più importante.
Ora la banca centrale cinese vuole rassicurare il resto del mondo. «Non ci sono le basi per un deprezzamento consistente», recita il suo comunicato ufficiale. Attenzione: nessuna banca centrale ha mai «confessato» di voler operare una svalutazione competitiva, tantomeno lo ha fatto in anticipo. Sono cose che si fanno, non si dicono. I mercati però non hanno dubbi. Tant’è che ieri la banca centrale cinese è dovuta intervenire per “moderare” la caduta del renminbi o yuan.
Al secondo giorno della manovra- svalutazione, tre cose sono chiare. Primo: l’Occidente è in imbarazzo, non è facile accusare la Cina visto che il renminbi sta «seguendo la pressione dei mercati» e le raccomandazioni del Fondo monetario. Secondo, la Cina sta copiando la lezione della Federal Reserve che, a suo tempo, non esitò a usare l’arma della svalutazione competitiva per uscire dalla crisi. Terzo, la tempistica di questa svolta monetaria è particolarmente sfortunata per l’Europa. Proprio mentre l’eurozona cominciava a sentire i primi frutti della sua svalutazione, arriva il contro-shock cinese, al quale ben presto si aggiungerà il rialzo dei tassi americani. Dunque l’eurozona si trova schiacciata fra una Cina che non tira più e un’America costretta a frenare dopo i 6 anni di crescita.
Ecco i dettagli. Dopo anni in cui il renminbi è stato una mone- ta semi-convertibile, il cui valore veniva di volta in volta agganciato ad un paniere di valute oppure al solo dollaro americano, da due giorni Pechino sta gradualmente attenuando il proprio controllo. In altri termini, fa quello che noi (Stati Uniti, Europa, Fmi) chiedevamo da tempo: trasforma il renminbi in una moneta più simile alle nostre, non manipolata direttamente dal governo. Su questo Pechino si gioca anche una partita geostrategica: l’ammissione del renminbi tra le valute “nobili” che compongono le riserve del Fmi. Ma la scelta dei tempi non è casuale. Il presidente Xi Jinping decide di abbandonare il renminbi “alla mercè di venti e maree” (più o meno), proprio quando ha la certezza che le forze di mercato spingono in una direzione: al ribasso. Dunque la svalutazione competitiva è scritta nella logica delle cose. Gli investitori mondiali sono preoccupati dalle difficoltà economiche della Cina, quindi vendono renminbi, puntano sulla sua caduta. E alla fine il risultato netto di una svalutazione è sempre lo stesso: la caduta del renminbi rende nominalmente “più poveri” 1,3 miliardi di cinesi, il cui potere d’acquisto si riduce; rende più care le nostre esportazioni in quello che era stato per anni un mercato trainante; rende viceversa meno caro tutto ciò che la Cina produce.
A’ la guerre comme à la guerre… non è strano né insolito che un Paese cerchi di trasferire i suoi problemi sui vicini. La Federale Reserve dopo la crisi del 2008 cominciò a stampar moneta in dimensioni inaudite: 4.500 miliardi di dollari. Uno degli effetti benefici di quella manovra (“quantitative easing”) fu la svalutazione competitiva del dollaro. L’euro schizzò oltre quota 1,50 sul dollaro. La ripresa americana ne fu aiutata. Con sei anni di ritardo, Mario Draghi riuscì finalmente a imitare la Fed, e fu il turno della Bce: stampar moneta, acquistare bond, indebolire l’euro. Ora lo fa la Cina. E’ difficile scomunicarla per questo. La sua macchina perde colpi, l’export cinese è calato dell’8% a luglio. Il Fondo monetario dà un cauto placet alla manovra di Pechino, la definisce un «passo benvenuto » verso la piena liberalizzazione valutaria. Ma per l’Europa si apre un’altra fase turbolenta. Proprio quando l’eurozona sta per mettersi alle spalle il tormentone greco, arriva un avviso di tempesta. Quando la più grande potenza industriale del pianeta svaluta, l’effetto netto è che esporta deflazione. Si riduce la domanda di tutto: petrolio, minerali, derrate agricole, e anche capi di abbigliamento firmati dalle grandi griffe italiane. L’America avrà pure i suoi problemi con questo contro-shock cinese. Ma intanto l’economia Usa ha incamerato 15 milioni di posti di lavoro e un periodo di crescita che è quasi da record, in termini di durata, se paragonato coi precedenti storici. L’aumento dei tassi d’interesse americani, se la Fed lo decide tra settembre e dicembre, può essere l’altro colpo in arrivo per le speranze di una rapida ripresa europea.