Occidente Express: 2 mesi, 3 mila euro La via dei Balcani
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«E adesso corriamo!». Mister Issam Howeri non bacia la terra, appena siamo di qua: «Lo farò solo quando arriveremo tutti in Germania». Addio Grecia, welcome to Macedonia. «Ma facciamo presto!…». Mister Issam non ha un Dio da ringraziare: «Ho vissuto vent’anni nel Michigan e là non c’era una moschea: ho perso l’abitudine». Ha un vezzo di tintura mogano da pettinare e un iPhone 6 da digitare: «Ahmed, per favore mandami un messaggio e dimmi che state bene…».
Ha 70 anni e ha dormito due giorni sul confine greco, sulla massicciata della rotaia. Lui con Ahmed, il figlio. E con la moglie di Ahmed, che porta il velo. E coi bambini di Ahmed, 4 e 2 anni. Tutti siriani. Per tetto, un melo. Per letto, uno sterrato pozzangheroso. Per bagaglio, borse Adidas e sacchetti di plastica. Per cesso, l’ovunque. Ha nel naso gli odori, nelle orecchie i pianti, negli occhi i lacrimogeni, nella carne le botte di questo limbo.
Mister Issam ha passaporto americano e potrebbe tornare a Detroit quando vuole. «Ma ho mollato l’autofficina, in novembre ho preso i risparmi e sono tornato a Damasco. Dopo una vita. A portar via Ahmed. Erano tre anni che gli dicevo d’andarsene. Siamo scappati a Beirut in macchina. Poi a Istanbul. Quando abbiamo saputo che s’era aperta questa strada, perché mio figlio non ha il visto per l’America, coi gommoni siamo sbarcati sulle isole greche: 50 su un gonfiabile che ne poteva portare la metà, i bambini coi salvagenti a ciambella… Abbiamo preso bus, treni. A Salonicco anche le biciclette, 60 chilometri fino al confine con la Macedonia. Adesso ci siamo separati, perché è più veloce passare senza vecchi. È stata dura. Ma almeno siamo di qua».
Di qua è come di là. Mister Issam passa il confine con noi, dall’autostrada E-75. Un po’ meno profugo, coi doganieri che gli guardano il passaporto e fanno pure il saluto. Basta un’auto lucida e hai subito l’upgrade: da animale a essere umano. «Ahmed ha appena superato il filo spinato! — mister Issam esulta al display —. È sul treno. Il permesso è di 72 ore. Ci troviamo a Skopje e lì si vede…». La Macedonia non è ancora l’Europa promessa e non le somiglia neppure, «ma qualunque cosa è meglio della Siria». Mister Issam riesce a sorridere. Finché sul telefonino non legge un altro messaggio di Ahmed: niente Skopje, papà, il treno tira dritto per Presevo…
«Presevo? E dov’è Presevo?». La risposta dell’autista fa più male di tutti i passatori libanesi, degli affittacamere turchi, degli scafisti greci, dei poliziotti macedoni: «È in Serbia, mister. È il campo profughi».
Occidente Express: sai da dove arrivi, non fin dove. Che tu abbia il parente ricco d’America o sia come gli ultimi duecento poveracci che ieri sera aspettavano ancora nei campi di girasoli d’Idomeni. Che ti possa permettere novemila euro per un passaporto greco falso o debba pigiarti sui traghetti dall’estremo Egeo, come i 2.500 rovesciati sui moli del Pireo.
Ci vogliono un paio di mesi e almeno tremila euro, a battere questa nuova via del pane. Stazioni da via crucis: 900-1.500 euro per salire sui gommoni da Smirne (di più se si vuole il marinaio); 400 a testa per un’auto da Atene a Salonicco e cento da Salonicco al confine (i tassisti rischiano sei mesi di ritiro patente); mille per provare a passare il confine ungherese.
In mezzo, le imboscate sui monti, le mazzette ai poliziotti. E la corsa col tempo: il muro anti-migranti dell’Ungheria sarà finito tra un paio di settimane, passare dopo sarà quasi impossibile. «Corriamo!…», s’agita mister Issam. La Macedonia s’attraversa in un soffio. Poche ore e a Presevo, terra infestata di guerriglieri kosovari, sono già in ottomila a fare due chilometri di coda: un panino, una pera, due bottigliette d’acqua. Ci sono i bus dell’Unhcr, destinazione Belgrado. E poi Subotica: il confine con l’Ungheria. Il nuovo tappo: a chi ha i soldi per passare, non resta che strisciare di notte fino alla stazione di Szeged (10 km), ignorare i cartelli xenofobi del governo Orbán, «non rubate il lavoro agli ungheresi!», risalire discretamente il Danubio e arrivare fino a Vienna, l’ultima porta.
Tre Paesi in nove giorni. Anche la Serbia concede solo 72 ore di permesso sul suo territorio, i carovanieri dei disperati lo sanno, ma è meno dura del governo di Atene e un po’ più elastica di quello di Skopje: i rifugiati di guerra sono una tradizione della casa, quelli delle Krajne e della Vojvodina anni Novanta ciondolano ancora per i Balcani — una volta si scoprì che dormivano addirittura nelle casematte abbandonate del vecchio lager nazista di Sajmiste — e alla fine nessuno si lamenta se i siriani si mettono nei parchi o nei magazzini graffitati di Mala Sava.
«Freedom no Frontex», scrivono i ragazzi di Belgrado. E tutti i sabati un’Ong, No Borders, raccoglie cibo e vestiti. Con la sorpresa che i serbi cattivoni d’un tempo, in quest’odissea, sono diventati i proci buoni: gli unici che aiutano come possono i rifiuti di un’Europa che rifiuta pure loro. «La risposta all’emergenza non si dà costruendo muri», ha detto qualche settimana fa il premier Aleksandar Vucic, visitando proprio Presevo. Vucic è un nazionalista e per l’inverno teme di trovarsi sul gobbo migliaia di rifugiati afghani, curdi, siriani: «Ci aspettiamo ondate ancora più imponenti».
I 175 chilometri di filo spinato che il governo ungherese gli sta piazzando sul confine, altezza 4 metri, torrette coi sensori, respingono indietro i disperati e alimentano la paura di dover pagare il conto di tutti. «Anche prima della crisi, noi serbi sapevamo che l’Europa non era una soluzione — ci dice il regista Lazar Stojanovich, storica voce critica belgradese —, ma questo muro rischia d’essere la nostra condanna. Chi si prende questi poveretti che nessuno vuole? Chi ci dà i soldi per aiutarli? Doberman e guardie armate. Dov’è l’Occidente sempre pronto a darci lezioni d’umanità e di democrazia?».
Al tramonto, sui cigli delle autostrade verso la Serbia, i profughi sono catene d’ombre che camminano tenendosi in braccio, per mano, insieme. Mister Issam un po’ si vergogna di marciare in auto con noi. Rallentiamo. Scendiamo a parlare con qualcuno. In un accampamento improvvisato, c’è una pozza che nella penombra non si vede. Una scivolata, i vestiti infangati. Un bambino ha mezza bottiglietta d’acqua. L’unica. Ce la offre: «Tenete, per pulirvi ».
Ha 70 anni e ha dormito due giorni sul confine greco, sulla massicciata della rotaia. Lui con Ahmed, il figlio. E con la moglie di Ahmed, che porta il velo. E coi bambini di Ahmed, 4 e 2 anni. Tutti siriani. Per tetto, un melo. Per letto, uno sterrato pozzangheroso. Per bagaglio, borse Adidas e sacchetti di plastica. Per cesso, l’ovunque. Ha nel naso gli odori, nelle orecchie i pianti, negli occhi i lacrimogeni, nella carne le botte di questo limbo.
Mister Issam ha passaporto americano e potrebbe tornare a Detroit quando vuole. «Ma ho mollato l’autofficina, in novembre ho preso i risparmi e sono tornato a Damasco. Dopo una vita. A portar via Ahmed. Erano tre anni che gli dicevo d’andarsene. Siamo scappati a Beirut in macchina. Poi a Istanbul. Quando abbiamo saputo che s’era aperta questa strada, perché mio figlio non ha il visto per l’America, coi gommoni siamo sbarcati sulle isole greche: 50 su un gonfiabile che ne poteva portare la metà, i bambini coi salvagenti a ciambella… Abbiamo preso bus, treni. A Salonicco anche le biciclette, 60 chilometri fino al confine con la Macedonia. Adesso ci siamo separati, perché è più veloce passare senza vecchi. È stata dura. Ma almeno siamo di qua».
Di qua è come di là. Mister Issam passa il confine con noi, dall’autostrada E-75. Un po’ meno profugo, coi doganieri che gli guardano il passaporto e fanno pure il saluto. Basta un’auto lucida e hai subito l’upgrade: da animale a essere umano. «Ahmed ha appena superato il filo spinato! — mister Issam esulta al display —. È sul treno. Il permesso è di 72 ore. Ci troviamo a Skopje e lì si vede…». La Macedonia non è ancora l’Europa promessa e non le somiglia neppure, «ma qualunque cosa è meglio della Siria». Mister Issam riesce a sorridere. Finché sul telefonino non legge un altro messaggio di Ahmed: niente Skopje, papà, il treno tira dritto per Presevo…
«Presevo? E dov’è Presevo?». La risposta dell’autista fa più male di tutti i passatori libanesi, degli affittacamere turchi, degli scafisti greci, dei poliziotti macedoni: «È in Serbia, mister. È il campo profughi».
Occidente Express: sai da dove arrivi, non fin dove. Che tu abbia il parente ricco d’America o sia come gli ultimi duecento poveracci che ieri sera aspettavano ancora nei campi di girasoli d’Idomeni. Che ti possa permettere novemila euro per un passaporto greco falso o debba pigiarti sui traghetti dall’estremo Egeo, come i 2.500 rovesciati sui moli del Pireo.
Ci vogliono un paio di mesi e almeno tremila euro, a battere questa nuova via del pane. Stazioni da via crucis: 900-1.500 euro per salire sui gommoni da Smirne (di più se si vuole il marinaio); 400 a testa per un’auto da Atene a Salonicco e cento da Salonicco al confine (i tassisti rischiano sei mesi di ritiro patente); mille per provare a passare il confine ungherese.
In mezzo, le imboscate sui monti, le mazzette ai poliziotti. E la corsa col tempo: il muro anti-migranti dell’Ungheria sarà finito tra un paio di settimane, passare dopo sarà quasi impossibile. «Corriamo!…», s’agita mister Issam. La Macedonia s’attraversa in un soffio. Poche ore e a Presevo, terra infestata di guerriglieri kosovari, sono già in ottomila a fare due chilometri di coda: un panino, una pera, due bottigliette d’acqua. Ci sono i bus dell’Unhcr, destinazione Belgrado. E poi Subotica: il confine con l’Ungheria. Il nuovo tappo: a chi ha i soldi per passare, non resta che strisciare di notte fino alla stazione di Szeged (10 km), ignorare i cartelli xenofobi del governo Orbán, «non rubate il lavoro agli ungheresi!», risalire discretamente il Danubio e arrivare fino a Vienna, l’ultima porta.
Tre Paesi in nove giorni. Anche la Serbia concede solo 72 ore di permesso sul suo territorio, i carovanieri dei disperati lo sanno, ma è meno dura del governo di Atene e un po’ più elastica di quello di Skopje: i rifugiati di guerra sono una tradizione della casa, quelli delle Krajne e della Vojvodina anni Novanta ciondolano ancora per i Balcani — una volta si scoprì che dormivano addirittura nelle casematte abbandonate del vecchio lager nazista di Sajmiste — e alla fine nessuno si lamenta se i siriani si mettono nei parchi o nei magazzini graffitati di Mala Sava.
«Freedom no Frontex», scrivono i ragazzi di Belgrado. E tutti i sabati un’Ong, No Borders, raccoglie cibo e vestiti. Con la sorpresa che i serbi cattivoni d’un tempo, in quest’odissea, sono diventati i proci buoni: gli unici che aiutano come possono i rifiuti di un’Europa che rifiuta pure loro. «La risposta all’emergenza non si dà costruendo muri», ha detto qualche settimana fa il premier Aleksandar Vucic, visitando proprio Presevo. Vucic è un nazionalista e per l’inverno teme di trovarsi sul gobbo migliaia di rifugiati afghani, curdi, siriani: «Ci aspettiamo ondate ancora più imponenti».
I 175 chilometri di filo spinato che il governo ungherese gli sta piazzando sul confine, altezza 4 metri, torrette coi sensori, respingono indietro i disperati e alimentano la paura di dover pagare il conto di tutti. «Anche prima della crisi, noi serbi sapevamo che l’Europa non era una soluzione — ci dice il regista Lazar Stojanovich, storica voce critica belgradese —, ma questo muro rischia d’essere la nostra condanna. Chi si prende questi poveretti che nessuno vuole? Chi ci dà i soldi per aiutarli? Doberman e guardie armate. Dov’è l’Occidente sempre pronto a darci lezioni d’umanità e di democrazia?».
Al tramonto, sui cigli delle autostrade verso la Serbia, i profughi sono catene d’ombre che camminano tenendosi in braccio, per mano, insieme. Mister Issam un po’ si vergogna di marciare in auto con noi. Rallentiamo. Scendiamo a parlare con qualcuno. In un accampamento improvvisato, c’è una pozza che nella penombra non si vede. Una scivolata, i vestiti infangati. Un bambino ha mezza bottiglietta d’acqua. L’unica. Ce la offre: «Tenete, per pulirvi ».
Francesco Battistini
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