Niente sviluppo senza ricerca

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Dati Istat. Produttività in calo tra il 1995 e il 2014 a causa della mancata innovazione. La competitività del sistema Italia è andata via via deteriorandosi a cominciare già dal periodo precedente alla crisi economica. La ministra Federica Guidi annuncia un piano governativo da 80 miliardi per investimenti sulle infrastrutture

Tra le que­stioni eco­no­mi­che spesso dibat­tute per spie­gare il declino ita­liano è pos­si­bile anno­ve­rare quello della scarsa pro­dut­ti­vità, cioè la capa­cità del lavoro e dei beni capi­tali, ma soprat­tutto del modo in cui que­sti due fat­tori si com­bi­nano attra­verso la tec­no­lo­gia e l’organizzazione dei pro­cessi di gene­rare valore aggiunto. Per far luce sulle dina­mi­che della pro­dut­ti­vità è pos­si­bile uti­liz­zare gli indi­ca­tori rela­tivi al periodo tra 1995 e 2014, pub­bli­cati ieri dall’Istat. L’evidenza più rile­vante mostra che in Ita­lia durante l’intero arco di tempo con­si­de­rato, la pro­dut­ti­vità totale dei fat­tori, cioè «la cre­scita del valore aggiunto attri­bui­bile al pro­gresso tec­nico e ai miglio­ra­menti nella cono­scenza e nei pro­cessi pro­dut­tivi» è dimi­nuita di circa lo 0.3% annuo.

Certo, tra il 1995 e il 2014, l’economia ita­liana ha subito cam­bia­menti strut­tu­rali, dall’introduzione dell’euro alla crisi eco­no­mica dal 2008, ma risa­lendo nel tempo le sta­ti­sti­che uffi­ciali, è indub­bio che il declino ita­liano ha radici ben più lon­tane, che con carat­te­ri­sti­che e pro­blemi simili risal­gono a prima del 1995. È soprat­tutto il periodo pre-crisi (2003–2009) quello che mag­gior­mente spiega la dina­mica ita­liana in cui nono­stante l’aumento, sep­pure in pro­por­zioni diverse, delle ore lavo­rate e di beni capi­tali (mezzi, mac­chi­nari, ecc..) nella pro­du­zione, il tasso di cre­scita del red­dito com­ples­sivo pro­dotto da que­sti è risul­tato nega­tivo (-0,9% in media all’anno).

Tra il 2009–2014 la pro­dut­ti­vità totale dei fat­tori ha mostrato invece un aumento medio posi­tivo sep­pure esi­guo (+0.4%). Que­sto non è dipeso da un atteg­gia­mento anti­ci­clico della poli­tica eco­no­mica (più inve­sti­menti in set­tori stra­te­gici e in inno­va­zione) ma da una ridu­zione dell’impiego dei fat­tori (soprat­tutto del lavoro) supe­riore al crollo del valore aggiunto. È così che la com­pe­ti­ti­vità del sistema Ita­lia è andata via via dete­rio­ran­dosi. Pur­troppo le ricette adot­tate hanno pale­se­mente fal­lito, mostrando la palese inef­fi­ca­cia degli stru­menti (sva­lu­ta­zione sala­riale e defi­sca­liz­za­zione svin­co­lata per le imprese) prima ancora che degli obiettivi.

Nes­suno si è invece pre­oc­cu­pato degli inve­sti­menti in inno­va­zione di pro­cessi e pro­dotti, ma anche in for­ma­zione di capi­tale umano. In pro­por­zione al Pil, gli inve­sti­menti pub­blici in ricerca e svi­luppo in Ita­lia sono circa la metà di quelli fran­cesi, e quasi un terzo di quelli tede­schi. Ancora più pro­nun­ciato è il diva­rio nel con­fronto tra set­tori privati.

L’azione di governo, pie­gan­dosi incon­di­zio­na­ta­mente all’austerità, non sol­tanto ha abban­do­nato l’obiettivo di ridurre una volta per tutte gli squi­li­bri con gli altri paesi euro­pei, ma ha rinun­ciato soprat­tutto alla que­stione nazio­nale per eccel­lenza, quella del diva­rio tra Nord e Sud Ita­lia, che si riper­cuote sull’intero paese. Gli ultimi dati del rap­porto Svi­mez con­fer­mano la dram­ma­ti­cità del dua­li­smo italiano.

Tor­nando ai dati sulla pro­dut­ti­vità, se al Centro-Nord tra il 2008 e il 2013 que­sta è dimi­nuita dello 0.8%, nel Mez­zo­giorno la ridu­zione è pari al 2.9%. Il crollo degli inve­sti­menti che ha carat­te­riz­zato l’Italia, è stato di gran lunga più mar­cato nel Meri­dione con una ridu­zione rispet­ti­va­mente del 24.6% al Nord e del 53.4% al Sud.

Ancora una volta, que­sta è una poli­tica che risale alla crisi dei primi anni Novanta e non a quella del 2008: tra il 1991 e il 2008, gli inve­sti­menti pub­blici al Sud pas­sano da 10000 milioni a 4000 milioni di euro, men­tre al Nord essi aumen­tano da 12 mila a 16 mila milioni di euro. Ma si sa, non è solo la quan­tità di risorse a deter­mi­nare incre­menti di pro­dut­ti­vità ma occorre una visione di svi­luppo dell’intero sistema che non può che essere diretto dall’intervento pubblico.

Per que­sto, gli annunci del governo, da ultimo quello della mini­stra dello Svi­luppo eco­no­mico Fede­rica Guidi, di desti­nare 80 miliardi per inve­sti­menti in infra­strut­ture e rele­gare il ruolo dello Stato a quello di faci­li­ta­tore per le imprese appa­iono quanto mai pre­oc­cu­panti. Non è rin­via­bile un inter­vento pub­blico che sia siste­mico, ovvero destini le pro­prie risorse (com­prese quelle per infra­strut­ture) in virtù di obiet­tivi indu­striali defi­niti, assu­men­done diret­ta­mente il con­trollo ed evi­tando la sven­dita ai capi­tali esteri di quel che rimane dell’industria italiana.



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