«Migranti condannati a morte nella stiva»
I 373 sopravvissuti sbarcati a Palermo raccontano le drammatiche fasi prima del salvataggio. Sotto accusa i cinque presunti scafisti arrestati. Le testimonianze dei superstiti della strage al largo della Libia: «Picchiati e torturati dagli scafisti in base all’etnia». In duecento sarebbero stati chiusi a chiave i nel sottobordo del motopeschereggio poi affondato.
Giovedì erano stati fermati dalla polizia di Palermo, ieri è arrivato l’arresto dei cinque presunti scafisti (due algerini, due libici e un tunisino, tutti ventenni) che sarebbero stati al timone del motopeschereccio che si è rovesciato mercoledì al largo della Libia, quindici miglia a nord di Al Zwara, provocando la morte di centinaia di persone. Sono accusati di immigrazione clandestina e omicidio. Gli inquirenti li hanno individuati grazie ai racconti dei sopravvissuti, arrivati nel porto palermitano dopo essere stati soccorsi dalla nave militare irlandese Le Niamh. A sbarcare anche le 26 salme che i militari sono riusciti a recuperare dal mare (tre di bambini): picchetto d’onore e fiori bianchi per ognuna delle bare. I parenti delle vittime, una decina, sono rimasti a Palermo mentre gli altri sono stati avviati nelle strutture di accoglienza fuori regione.
Le testimonianze rilasciare alla polizia e ai mediatori culturali stanno delineando un quadro agghiacciante di violenze brutali, somministrate in gradi diversi su base etnica e su quanto viene pagato a chi organizza il traffico. Ogni scafista avrebbe avuto un compito: uno comandava l’imbarcazione, due davano una mano al timone, gli altri due si occupavano di controllare i migranti impedendo loro, con la violenza, di muoversi. Sono accusati di omicidio plurimo per aver provocato la morte accertata di 26 migranti più quella presunta di circa 200 persone che mancherebbero all’appello.
Sul barcone sarebbero state stipate intorno ai 650 passeggeri: dopo appena tre ore di viaggio, hanno raccontato, dal vano motore è cominciata a entrare acqua nella stiva, dove erano chiusi gli africani che avevano pagato metà prezzo per la traversata. Secondo i trafficanti sarebbe stato possibile tenerli chiusi sottobordo anche per tre giorni. Il costo del viaggio, dicono i sopravvissuti, varia da 1.200 a 1.800 dollari ciascuno. Per avere un giubbotto di salvataggio si pagherebbe una cifra supplementare che varia da 35 a 70 dinari libici, cioè da 25 a 50 euro circa.
Quando hanno cominciato a imbarcare acqua, gli scafisti hanno ordinato ai migranti di provare a buttarla fuori con alcuni secchi, impresa impossibile. Uomini, donne e bambini hanno cercato una via di fuga: i cinque al comando prima li hanno ricacciati dentro colpendoli con coltelli e bastoni quindi hanno chiuso l’uscita, costringendo inoltre gli altri passeggeri a sedersi sulla porta della stiva, condannandoli così alla morte. Per ottenere obbedienza avrebbero marchiato con i coltelli la testa di coloro che non rispettavano gli ordini, soprattutto quelli centroafricani e sub-sahariani. Gli arabi, invece, sarebbero stati picchiati con le cinture e gli uomini sposati con calci e pugni al viso davanti alle mogli.
Solo in 373 sono sopravvissuti, grazie all’Sos lanciato con il telefono satellitare. «Sono stati momenti terribili – ha raccontato dopo lo sbarco a Palermo Abdi Abdala, somalo di 21 — pensavamo di annegare tutti con l’acqua che saliva dentro l’imbarcazione. Da dentro la stiva venivano fuori urla strazianti. Chiedevano di uscire. Ma sono stati lasciati lì a morire. Appena abbiamo visto la grande nave grigia molti si sono spostati. È iniziato l’inferno».
La Le Niamh si è fermata a circa un miglio dal barcone per calare le scialuppe, i migranti terrorizzati si sono spostati tutti verso la nave militare provocando il ribaltamento e l’affondamento del peschereccio, sono bastati pochi minuti vista l’acqua che aveva già imbarcato.
Per chi era chiuso sottobordo non c’è stato niente da fare. «È stata una visione orrenda, le persone si aggrappavano disperatamente ai giubbotti di salvataggio, alle barche e a qualunque cosa potessero trovare per salvare le loro vite, mentre altre persone affondavano e altre erano già morte» ha raccontato Juan Matias, il coordinatore di Medici senza frontiere a bordo della Dignity One, l’altra nave che ha raggiunto il motopeschereccio, dopo aver salvato 94 migranti stipati su un gommone non lontano.
«Il fatto che noi fossimo stati chiamati per primi per assistere questa barca — conclude — e dopo poco mandati verso un’altra imbarcazione, mette in evidenza le serie mancanze di risorse disponibili per le operazioni di soccorso».
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