Manganelli e gas urticante: la “guerra” infinita tra poliziotti e disperati

by redazione | 4 Agosto 2015 9:31

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CALAIS. HA GLI occhi rossi. Il viso pieno di macchie. Se le gratta. Ma gli amici, i connazionali, sudanesi e etiopi, lo rimproverano. «Lascia perdere, non ti toccare». Arriva una ragazza, Lucille, volontaria di una ong. È un’infermiera. «Ecco, prendi questa. Passala sulla faccia». Salan, 30 anni, ingegnere informatico oggi immigrato, esegue l’ordine. Si spalma la crema sulle macchie che rischiano di diventare piaghe. Si calma, respira piano. «Gas – dice con un filo di voce – gas urticante. Ce lo sparano addosso». Chi gli sta attorno annuisce. Mehemet, 28 anni, commerciante del Darfur, rifugiato in attesa di un permesso che non arriva mai, ci mostra le mani: «Hanno colpito anche me. Ho alzato le braccia per proteggermi il viso. Lui non ci è riuscito».
È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l’entrata dell’Eutotunnel. La gente non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia all’uomo. La luce, a queste latitudini, d’estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati. Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro giorni che la grande fuga verso l’Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola. Ci hanno provato in 1700 domenica, 1200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima.
I “flic”, i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. «Con il buio facciamo le prime incursioni », racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai colleghi. «Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare ». La legge, nella guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l’assalto al tunnel della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso.
Gracchia la radio, c’è ordine di muoversi. L’atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall’ingresso verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall’inizio dell’anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano saltati in corsa, dalle macchine sull’autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi apparsi dal nulla.
Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i bambini. Dall’altra parte i poliziotti attendono l’ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano, la bomboletta nell’altra.
Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e veloci, che corrono a serpentina e con la forza d’urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedo- no davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c’è dietro.
Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria. Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non demordono. All’alba arriva l’ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il traffico è interrotto. Ci vorrà l’intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa. Domani si ricomincia.
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