Libia, la spinta italiana per la tregua Poi la fase 2 con una missione Onu
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ROMA Aiuti militari, finanziari, training dell’esercito libico, missione di caschi blu dell’Onu a presidio dei punti strategici del territorio libico, eventuali incursioni aeree con gli alleati. È lo scenario su cui lavora ormai da mesi il governo italiano, Palazzo Chigi e la Farnesina in una triangolazione costante con il Quirinale, nel caso in cui davvero i negoziati dell’inviato speciale della Nazioni Unite, lo spagnolo Bernardino Leon, dovessero avere successo e riuscire a ricreare un fronte di unità nazionale fra le diverse fazioni libiche e il governo riconosciuto di Tobruk.
I preoccupanti passi avanti dell’Isis, la conquista di Sirte, le notizie di barbarie che arrivano dalla città che diede i natali a Gheddafi e le tragedie che ormai quotidianamente costellano l’emergenza migranti hanno ovviamente fatto salire la tensione, aumentato il senso di urgenza e provocato un intensificarsi dei contatti della nostra diplomazia. Il nostro governo anche ieri ha avuto colloqui con le autorità libiche e sta accelerando gli sforzi per contribuire ad arrivare alla nascita di un governo libico di unità nazionale.
Sarebbe il primo passo, dopo mesi di negoziati difficilissimi, sin qui condotti da Leon con una tenacia che gli viene ormai riconosciuta da tutti in sede internazionale, per giungere a quel punto di svolta che non solo la Farnesina e Palazzo Chigi, ma anche le Nazioni Unite, oltre ai nostri alleati, ritengono prioritario rispetto a qualsiasi sforzo, aiuto o intervento diretto, nella stabilizzazione del Paese africano.
L’unica cosa che si esclude, a tutti i livelli del nostro apparato istituzionale, e con una sintonia che è univoca fra governo e presidenza della Repubblica, è il classico intervento militare di terra, «sarebbe un regalo ai terroristi, che non aspettano altro», confermano fonti governative che hanno seguito passo dopo passo il dossier Libia negli ultimi mesi.
Ma un’eventuale fase 2, dopo la costituzione di un governo di emergenza nazionale, schiuderebbe uno scenario completamente nuovo. Il piano a cui sta lavorando Leon, in costante contatto anche con il nostro governo, prevede un accordo delle attuali 24 fazioni libiche (in 20 lo hanno già siglato, mancano fra gli altri le autorità di Tripoli) sul nome del premier, dei due vicepremier, sul programma di governo, sulle alte cariche finanziarie del Paese (a partire dalla Banca centrale) e su alcuni emendamenti alla carta costituzionale libica. Un accordo che formerebbe un governo di emergenza nazionale della durata di un anno, prorogabile di un altro anno, prima di cedere il passo a libere elezioni. L’auspicio del negoziatore dell’Onu è riuscire a chiudere entro la fine di settembre, prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.
Insomma, nonostante l’incarico di Leon sia in scadenza, al momento quello del diplomatico spagnolo è uno sforzo sostenuto con convinzione da tutti, e in primo luogo dal nostro governo: «L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità — ha dichiarato due giorni fa il ministro Gentiloni — affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese».
Parole che sembrano preludere proprio a una fase 2, fase che fra i primi atti vedrebbe una richiesta formale del nuovo governo libico di aiuti internazionali di stabilizzazione del Paese, oltre alla richiesta di revocare le sanzioni di carattere militare. Permettendo a quel punto, sotto precise garanzie, e con un modello di supporto logistico a più livelli, a un governo unitario e riconosciuto di avere una capacità militare maggiore per fronteggiare i terroristi che si richiamano al Califfo dell’Isis. Anche se una fase 2 è legata alla chiusura dei negoziati e dunque è solo eventuale (la settimana prossima ci sarà un nuovo round di negoziati in Marocco, cui parteciperanno anche autorità governative italiane), il modello di un intervento della comunità internazionale, probabilmente a guida italiana, che si è più volta candidata senza trovare resistenze, prevederebbe al momento, oltre ad aiuti militari e finanziari, anche la possibilità di inviare forze di peacekeeping sotto l’egida dell’Onu per mettere in sicurezza i punti nevralgici del Paese: il porto di Tripoli, gli aeroporti, i principali collegamenti stradali, gli impianti petroliferi. A questo si aggiungerebbe un aiuto diretto nell’addestramento militare di un nuovo esercito unitario libico.
I preoccupanti passi avanti dell’Isis, la conquista di Sirte, le notizie di barbarie che arrivano dalla città che diede i natali a Gheddafi e le tragedie che ormai quotidianamente costellano l’emergenza migranti hanno ovviamente fatto salire la tensione, aumentato il senso di urgenza e provocato un intensificarsi dei contatti della nostra diplomazia. Il nostro governo anche ieri ha avuto colloqui con le autorità libiche e sta accelerando gli sforzi per contribuire ad arrivare alla nascita di un governo libico di unità nazionale.
Sarebbe il primo passo, dopo mesi di negoziati difficilissimi, sin qui condotti da Leon con una tenacia che gli viene ormai riconosciuta da tutti in sede internazionale, per giungere a quel punto di svolta che non solo la Farnesina e Palazzo Chigi, ma anche le Nazioni Unite, oltre ai nostri alleati, ritengono prioritario rispetto a qualsiasi sforzo, aiuto o intervento diretto, nella stabilizzazione del Paese africano.
L’unica cosa che si esclude, a tutti i livelli del nostro apparato istituzionale, e con una sintonia che è univoca fra governo e presidenza della Repubblica, è il classico intervento militare di terra, «sarebbe un regalo ai terroristi, che non aspettano altro», confermano fonti governative che hanno seguito passo dopo passo il dossier Libia negli ultimi mesi.
Ma un’eventuale fase 2, dopo la costituzione di un governo di emergenza nazionale, schiuderebbe uno scenario completamente nuovo. Il piano a cui sta lavorando Leon, in costante contatto anche con il nostro governo, prevede un accordo delle attuali 24 fazioni libiche (in 20 lo hanno già siglato, mancano fra gli altri le autorità di Tripoli) sul nome del premier, dei due vicepremier, sul programma di governo, sulle alte cariche finanziarie del Paese (a partire dalla Banca centrale) e su alcuni emendamenti alla carta costituzionale libica. Un accordo che formerebbe un governo di emergenza nazionale della durata di un anno, prorogabile di un altro anno, prima di cedere il passo a libere elezioni. L’auspicio del negoziatore dell’Onu è riuscire a chiudere entro la fine di settembre, prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.
Insomma, nonostante l’incarico di Leon sia in scadenza, al momento quello del diplomatico spagnolo è uno sforzo sostenuto con convinzione da tutti, e in primo luogo dal nostro governo: «L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità — ha dichiarato due giorni fa il ministro Gentiloni — affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese».
Parole che sembrano preludere proprio a una fase 2, fase che fra i primi atti vedrebbe una richiesta formale del nuovo governo libico di aiuti internazionali di stabilizzazione del Paese, oltre alla richiesta di revocare le sanzioni di carattere militare. Permettendo a quel punto, sotto precise garanzie, e con un modello di supporto logistico a più livelli, a un governo unitario e riconosciuto di avere una capacità militare maggiore per fronteggiare i terroristi che si richiamano al Califfo dell’Isis. Anche se una fase 2 è legata alla chiusura dei negoziati e dunque è solo eventuale (la settimana prossima ci sarà un nuovo round di negoziati in Marocco, cui parteciperanno anche autorità governative italiane), il modello di un intervento della comunità internazionale, probabilmente a guida italiana, che si è più volta candidata senza trovare resistenze, prevederebbe al momento, oltre ad aiuti militari e finanziari, anche la possibilità di inviare forze di peacekeeping sotto l’egida dell’Onu per mettere in sicurezza i punti nevralgici del Paese: il porto di Tripoli, gli aeroporti, i principali collegamenti stradali, gli impianti petroliferi. A questo si aggiungerebbe un aiuto diretto nell’addestramento militare di un nuovo esercito unitario libico.
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