Muoiono di fame o di sete, di fatica, di crepacuore. Quanti sono? Quanti? Con i 51 ritrovati nelle sentine della nave svedese che è entrata nel porto di Palermo sono 2.440 da inizio anno (più di 500 dal primo giugno) quelli che non ce l’hanno fatta ad attraversare il Mediterraneo e le altre frontiere macello dell’Europa, dati ufficiali Onu.
Poi arriva la notizia di quelli intrappolati nel rimorchio di un camion abbandonato sull’autostrada vicino a un lago tra Austria e Ungheria e bisogna subito rivedere la statistica, ritoccarla, aggiungere nuovi «dati» su sopravissuti, deceduti, dispersi. Come accadrà inesorabilmente domani e anche dopodomani. Come accadrà la prossima settimana e il prossimo mese. Quanti sono? E quanti ce ne saranno ancora?
Come si chiamava il ragazzo sudanese «dall’apparente età tra i 25 e i 30 anni» falciato da un Tir il 29 luglio mentre tentava di raggiungere la Gran Bretagna dalla Francia? E chi lo sa, chi lo ha mai saputo? «La nostra squadra ha trovato un cadavere stamani e i vigili del fuoco hanno confermato la morte di questa persona», si è limitato a riferire uno dei portavoce dell’Eurotunnel. Confermato il decesso, tutto molto regolare e burocratico, tutto in regola. In 11 sono morti a Calais quest’estate. A Calais, dall’altra parte dell’Europa, lontano dal nostro mare. Perché, forse li conosciamo i nomi e le storie e i numeri veri dei naufraghi ingoiati nel Mediterraneo il 28 aprile? La guardia Costiera ha informato ufficialmente che erano 750.
«Eravamo almeno 950 e forse anche di più», ci ha raccontato uno dei sopravvissuti che abbiamo incontrato qualche giorno dopo nel centro di accoglienza di Mineo, il famigerato Cara agli ordini dei grassatori di Mafia Capitale, quelli che hanno scoperto che si fanno più soldi con i neri disperati che con la droga. Un incendio, un barcone che si è capovolto, tante teste ricce che sparivano e riapparivano e in un istante sono scomparse per sempre. Qualche giorno prima – 16 aprile – 12 nigeriani e ghanesi gettati in mare perché «cristiani». Uccisi da fondamentalisti musulmani, in acque internazionali, davanti alla Sicilia, a due ore di navigazione dalla salvezza. Due ore in più o due ore in meno, la differenza fra la vita e la morte.
L’estate 2015 è cominciata in primavera. Tempo bello, mare piatto. Più il tempo è bello e più il mare è piatto e più noi contiamo morti. Ogni giorno. Il 27 luglio: «Soccorso barcone stipato di migranti: tra i 535 a bordo anche 13 cadaveri». 5 agosto: «Peschereccio si capovolge vicino alla Libia. A bordo 600 persone, 300 in salvo, recuperati 25 cadaveri». 6 agosto: «Proseguono nel Canale di Sicilia, a circa 22 miglia dalle coste della Libia, le operazioni di soccorso dei naufraghi del barcone rovesciatosi con a bordo centinaia di migranti. I cadaveri recuperati sarebbero una trentina». Tutte vite inghiottite durante quella che viene definita «la rotta più letale del mondo», il viaggio dalla città libica di Misurata all’isola di Lampedusa, 224 miglia nautiche, il mare cimitero.
Quanti sono? A volte – se meno di dieci o venti – non si guadagnano neanche una «breve» sui giornali. L’assuefazione, l’abitudine alla morte, in dieci o in venti non fanno più clamore e nemmeno destano un po’ di curiosità, è diventata normalità sprofondare negli abissi, è il rischio calcolato del passaggio da un mondo all’altro mondoi. Sono diventati così tanti i cadaveri che devono diventare sempre di più per trovare uno spazio in prima pagina, altrimenti basta una foto notizia. Come quella del 15 agosto: «Sono 49 i cadaveri recuperati su un barcone sovraccarico di migranti soccorso dalla Guardia Costiera difronte alla Libia ».
Il bollettino lo rinnoviamo di giorno in giorno, anche di ora in ora. Come per gli ultimi che se ne sono andati ieri l’altro, 26 agosto, perché non respiravano più, non c’era più aria là sotto dove li avevano ammassati, solo esalazioni di gas, oli di motore. «Tratti in salvo 439, i deceduti 51». Per i secondi della lista sono pronti i container al porto di Palermo. Le loro bare. Chissà se finiranno nei container anche quegli uomini e quelle donne ritrovati in una piazzola di sosta dell’autostrada tra il Burgerland Neusiedl e Parndorf, bare austriache, bare italiane.
Si può morire soffocati in una barca o su un camion, in mezzo al mare o su un viadotto, sul fronte più meridionale dell’Europa che è Lampedusa o a pochi chilometri da Vienna. Si muore sempre quando si parte da là e si viene di qua.