La rivoluzione di Google il colosso cambia pelle e diventa Alphabet
by redazione | 12 Agosto 2015 8:44
CHIAMATEMI ALPHABET. Il motore di ricerca che ha ridisegnato il mondo, rivoluzionando il nostro accesso alle informazioni, ha deciso di cambiare pelle. Cominciando dal nome. Google diventa Alphabet. Lo fa per scongiurare la “sindrome Microsoft”. La malattia di Bill Gates — si fa per dire: lui personalmente sta benissimo — è quella che insidia il numero uno, giunto al vertice nella competizione, quando si siede sugli allori. E allora qualcun altro (Apple, la stessa Google, Facebook) gli soffia il primato della creatività. «Per Sergey Brin e per me — ha annunciato il co-fondatore Larry Page sul suo blog — si apre un nuovo capitolo della vita. Alphabet indica le lettere del linguaggio, una delle innovazioni più importanti dell’umanità, alla base delle ricerche Google».
Il nome di Google non scompare, in realtà. Diventa solo una delle filiali — la più grossa — dentro il contenitore di Alphabet che è il conglomerato di controllo. Questo significa che per l’utente all’inizio il cambiamento sarà invisibile. La filiale Google continuerà a gestire tutti i servizi che ne hanno fatto la fortuna: anzitutto l’omonimo motore di ricerca con la connessa raccolta pubblicitaria; la posta Gmail; la piattaforma di video YouTube; le mappe; il software Android che fa funzionare la maggior parte degli smartphone (per esempio molti modelli Samsung).
E allora che cosa cambia con Alphabet, la prima trasformazione nella ragione sociale dell’azienda nata il 4 settembre 1998 in un garage di Menlo Park (Silicon Valley)? Più trasparenza nei conti, più diversificazione, più flessibilità nell’inseguire nuovi progetti e nuove vocazioni: questa è la promessa insita nell’annuncio. In passato Page aveva proclamato la sua ammirazione per Warren Buffett, il più celebre investitore americano,che guida il conglomerato Berkshire Hathaway. Il paragone non è del tutto pertinente. Buffett ha un fiuto leggendario, certo, però investe in aziende già esistenti. Brin e Page sono dei pionieri, inseguono la creazione di cose mai fatte prima. Dunque sotto l’ombrello del loro conglomerato Alphabet, a fianco della filiale Google, ce ne saranno altre a cui fanno capo le attività sperimentali di Google X e Google Lab, gli incubatori da cui sono nati il Google Glass e l’automobile senza guidatore.
Altre controllate sono Calico che si occupa di ricerche sulla longevità; le società che creano software medico; progetti avveniristici per l’uso di droni; dirigibili per portare il wi-fi nelle zone più remote del pianeta. Ci saranno anche tutte quelle invenzioni che vanno sotto il nome di “Internet delle cose”, come i termostati intelligenti o gli elettrodomestici che si manovrano da soli.
A elencare tutte queste attività, un dato balza agli occhi. Da quando esiste Google, il suo vero successo rimane il motore di ricerca. È quella la gallina dalle uova d’oro, che grazie alla raccolta pubblicitaria ha proiettato l’azienda ai vertici delle capitalizzazioni di Borsa (ma pur sempre dietro Apple). La contraddizione è questa. Alphabet contiene una serie di attività “vecchie” (a 17 anni si è già maturi nella Silicon Valley) che rimangono straordinariamente profittevoli.
Al tempo stesso Alphabet nasce per dare a Page e Brin più libertà di sperimentare nuove strade, benché finora le diversificazioni siano state dei flop sul piano della diffusione di massa o della redditività. Non basta proclamare alto e forte che bisogna evitare la sindrome di Bill Gates, per trasformarsi in uno Steve Jobs che trasformava in oro quasi tutto quello che toccava.
Alphabet si può anche scomporre in “bet” come scommessa e “alpha” come i titoli più valorizzati dalla Borsa: è una strizzata d’occhio a Wall Street, che ha reagito all’annuncio con un bel rialzo. Quantomeno gli investitori apprezzano che si faccia un’operazione di verità e trasparenza: d’ora in avanti sarà possibile distinguere cosa guadagna la vecchia Google e cosa guadagnano o perdono le attività diversificate.
Alla guida della nuova Alphabet arriva come chief executive un “altro” indiano. Proprio come Bill Gates ha voluto rilanciare Microsoft con il chief executive Satya Nadella, Page e Brin hanno scelto il 43enne Sundar Pichai: nato nel Tamil Nadu, studi a Chennai, laurea all’Indian Institute of Technology di Kharagpur. Nella sua biografia sul sito Bloomberg ci sono questi dettagli: Pichai ha visto il primo telefono a casa dei genitori quando aveva già 12 anni; in India i suoi non possedevano né un’auto né una tv; l’intera famiglia di quattro persone si spostava su uno scooter.
Il New York Times ha scovato un piccolo problema sulla scelta del nome. Alphabet esiste già come marchio depositato. È una società della Bmw, che gestisce servizi per le flotte di auto aziendali. «È possibile che Brin e Page non abbiano fatto una ricerca su Google prima di scegliere il nome? » si chiede ironicamente il
New York Times . In realtà il diritto sui marchi depositati consente anche dei cloni, purché non creino confusione nel consumatore. Ben altre sono le sfide che la nuova Alphabet dovrà affrontare, per dimostrare di essere un motore d’innovazione e non solo il giocattolo della fantasia di due multimiliardari californiani.