UN LIVELLO di popolarità dell’8% è il nuovo record mondiale tra le democrazie. È il governo di Dilma Rousseff a detenere questo trofeo negativo. Checché ne dica lei, sono davvero un numero esiguo i suoi concittadini che la giudicano all’altezza.
Se l’ordine regna (talvolta) in Brasile, secondo Amnesty International il prezzo è intollerabile: 1.500 morti solo a Rio de Janeiro negli ultimi 5 anni, per i metodi violenti della polizia militare. Come sembra lontana quella “bonifica virtuosa” delle favelas (le baraccopoli di Rio) che fece notizia ai tempi di Luis Inacio Lula da Silva, il predecessore della Rousseff. Ancora quattro anni fa, e con Lula già in pensione, The Economist alla vigilia del viaggio di Obama in Brasile additò il paese come un modello per il Sud del pianeta, esaltando le ingegnose politiche della sua socialdemocrazia, a cominciare dalla “bolsa familia”, un sistema di sussidi alle madri per mantenere a scuola i ragazzi e debellare il lavoro minorile.
Oggi, invece, sembra che dal Brasile arrivino solo notizie negative. Quando una delle più grandi banche mondiali, la Hsbc anglo- cinese, decide di disfarsi della sua filiale di San Paolo, il magazine americano di economia Forbes commenta lapidario: «Se una multinazionale vuole rendere felici i suoi azionisti deve abbandonare il Brasile». Tutto gira storto, mentre si avvicina l’anno delle Olimpiadi: 2016, sarà la prima volta per un paese sudamericano, ma anche le grandi opere per i Giochi sono state un susseguirsi di scandali, proteste, indagini per tangenti.
Imputare tutto il bene del passato a Lula e tutto il male alla Rousseff sarebbe ingiusto e soprattutto inesatto. Le accuse di corruzione lambiscono l’entourage di ambedue i presidenti, le loro storie sono inseparabili. Compagni di partito, carriere intrecciate: Dilma fu a lungo braccio destro di Lula. Fu lui a proiettarla verso la sua successione. Il declino del Partito dei Lavoratori li coinvolge alla pari. Ieri è stato arrestato l’ex ministro Jose Dirceu, che fu capo gabinetto di Lula. L’indagine che lo riguarda si riferisce a fatti accaduti dal 2003 al 2005. Ma altre inchieste per corruzione si estendono alla campagna elettorale della Rousseff nel 2014, riguardano i finanziamenti illeciti erogati da Petrobras per la sua rielezione.
Dietro la decadenza del modello brasiliano c’è anzitutto la fine di un ciclo economico. È lontana l’epoca in cui il Brasile poteva vantarsi di essere la lettera iniziale del club dei Brics (con Russia, India, Cina e Sudafrica), nonché una delle più dinamiche economie emergenti. Ora la sua moneta, il real, è ai minimi da 12 anni sul dollaro. La banca centrale ha dovuto aumentare per sei volte consecutive i tassi d’interesse, fino al 14,25%, nel tentativo di domare l’inflazione. Quest’anno si prevede una secca recessione, col Pil in calo del 2,5%, dopo un anno di crescita zero. Solo la Russia va peggio, nel club malconcio dei Brics.
Per capire come si è spezzato il sogno brasiliano bisogna guardare lontano. Verso le due economie più grandi del mondo: Stati Uniti e Cina. La politica monetaria americana, con il “quantitative easing”, per cinque anni aveva generato una liquidità immensa: 4.500 miliardi di dollari stampati dalla Federal Reserve per acquistare bond, far circolare credito, rilanciare la crescita. Una parte di quei capitali sono straripati, esondati, dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Ne hanno beneficiato paesi emergenti come il Brasile, destinazione privilegiata di investimenti esteri. Ma la Fed, avendo raggiunto il suo obiettivo, ha cessato di stampar moneta. L’alta marea si ritira. I capitali abbandonano i paesi emergenti dove avevano alimentato speculazione e inflazione.
In quanto alla Cina, il miracolo brasiliano deve molto al suo traino. Una battuta circolava ai vertici del governo Lula negli anni d’oro della crescita: «Fortuna che i cinesi imparano a mangiare anche il dessert». Una serie di cambiamenti portati dal benessere nella dieta ancestrale dei cinesi — la scoperta del caffè, del cioccolato, del gelato — si rivelarono una manna dal cielo per l’agricoltura brasiliana, una delle più produttive del mondo. Dalla soya allo zucchero, l’export di derrate agro-alimentari generò un ciclo positivo dell’economia brasiliana interdipendente con quello della Cina. Idem per le vendite di minerali, o di petrolio: più andava forte la crescita cinese più trascinava quella brasiliana.
È vero che il Brasile ha saputo costruirsi un’economia differenziata e quindi più solida di altre nazioni emergenti. Ha una robusta industria manifatturiera, con fiori all’occhiello come Embraer, terzo produttore aeronautico mondiale dietro Airbus e Boeing. Non è un paese da mono-cultura, né uno “Stato estrattivo” come la Russia o l’Arabia saudita. E tuttavia quando viene meno un motore come la Cina, la cui crescita è in serio rallentamento, le altre componenti dell’economia brasiliana non ce la fanno a compensare quel vuoto.
È significativo che gli ultimi scandali di corruzione ruotino spesso attorno a Petrobras. Questo ente petrolifero di Stato avrebbe potuto rappresentare il futuro del Brasile, dopo le scoperte di immensi giacimenti offshore. Ma da un anno è crollato il prezzo del petrolio, vanificando tanti progetti. E la rendita accumulata con Petrobras, anziché finanziare un futuro diverso, è stata dissipata o sequestrata da un ceto politico rapace. Come in molte altre nazioni emergenti, e non solo quelle, forse l’ordine delle priorità andrebbe modificato: costruire uno Stato di diritto e un’etica civile conta ancor più delle percentuali di aumento del Pil.