by redazione | 7 Agosto 2015 10:16
Mediazione contro azioni militari. Si può descrivere così lo scontro globale nel campo di battaglia siriano: da una parte il negoziato, cercato dall’Iran, e dall’altra l’opzione militare per rovesciare Assad, architettata dalla coalizione globale, Occidente e Golfo.
Dopo quattro anni e mezzo di guerra civile, la Siria giunge all’ennesimo giro di boa. A imporlo sono gli Stati uniti che, dopo svariati fallimenti nel far cadere il governo del presidente Assad, puntano ancora su addestramento delle opposizioni moderate e raid aerei. Una strategia che ha avuto finora un solo risultato: rafforzare lo Stato Islamico e i gruppi islamisti, a scapito delle forze che da anni tentano di frenare l’avanzata jihadista, Damasco e kurdi.
Ieri, dopo due giorni di duri scontri tra forze governative e Isis, la città di al-Qaryatain, nel sud est di Homs, è caduta in mano al califfo. Mercoledì l’offensiva era stata lanciata da tre kamikaze che si erano fatti saltare in aria vicino a checkpoint militari. Ieri la comunità è stata occupata. Una comunità, di nuovo, strategica come le tante finora prese dall’Isis che si muove con intelligenza sul terreno: al-Qaryatain si trova lungo la strada che collega l’est del paese e la provincia di Qalamoun (al confine con il Libano) con il centro, in particolare con l’antica città di Palmira, primo centro controllato da Damasco a cadere nelle mani dello Stato Islamico.
Controllare al-Qaryatain significa, per l’Isis, garantirsi ulteriore libertà di movimento nel trasferimento di uomini e armi verso la frontiera libanese, dove oggi a scontrarsi sono al-Nusra e Hezbollah.
L’Isis segna un altro punto, mentre la coalizione si muove quasi alla cieca, contraddicendo se stessa. Pochi giorni fa Washington ha annunciato l’intenzione di colpire qualsiasi forza attacchi i propri ribelli, ovvero i miliziani delle opposizioni moderate addestrati e armati dalla Casa Bianca. Nel mirino non c’è solo al-Nusra, che di ribelli freschi di addestramento ne ha già rapiti 18, ma potenzialmente anche la stessa Damasco. In tale contesto sono partiti ieri i primi jet militari Usa verso il nord della Siria, dalla base aerea turca di Incirlik, finora negata da Ankara e ora messa a disposizione in cambio di un occhio chiuso sui bombardamenti contro il Pkk in Iraq.
Che gli aerei statunitensi abbiano nel mirino l’esercito governativo o i qaedisti, l’estrema debolezza della strategia militare Usa è smascherata dagli stessi ribelli che quei jet dovrebbero difendere. Ieri in un comunicato ufficiale la Divisione 30 (l’unità addestrata nei mesi scorsi in Turchia e poi aggredita da al-Nusra che ne ha rapito alcuni membri e uccisi almeno cinque) si è fatta beffe della Casa Bianca: il gruppo non intende combattere l’organizzazione qaedista né tanto meno approva i bombardamenti Usa. Perché, dicono, l’obiettivo è un altro: non le fazioni anti-Assad, ma il presidente Assad. Insomma, chi combatte il presidente, anche se responsabile di rapire e uccidere i tuoi stessi uomini, è comunque un potenziale alleato.
Una visione folle che, però, riflette indirettamente la strategia occidentale in Siria. Una strategia che ormai pare avere un solo oppositore: l’Iran. Teheran, forte della rinnovata legittimità internazionale ottenuta con la firma dell’accordo sul nucleare, opta ormai da mesi per una presenza diversa da quella esclusivamente militare sul grande campo di battaglia meridionale. Presente in Iraq alla guida delle milizie sciite e al confine tra Siria e Libano accanto ai combattenti di Hezbollah, l’Iran gioca un nuovo ruolo, potenzialmente molto più produttivo: quello diplomatico.
Mentre Mosca e Washington si incontrano e discutono di risoluzioni Onu per punire i responsabili dell’uso di armi chimiche in Siria, mentre il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov analizzano insieme i possibili scenari post-Assad, Teheran punta sulla pace negoziata. E lo fa mettendola sul tavolo del Palazzo di Vetro, a smascherare gli interessi occidentali: non una soluzione politica, ma il rovesciamento del governo Assad.
Il vice ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir Abdollahian, ha fatto sapere che il suo governo presenterà alle Nazioni Unite un piano in quattro punti, redatto «dopo consultazioni dettagliate con Damasco». Abdollahian non ha fornito ulteriori dettagli, limitandosi a dire che nessuna soluzione militare potrà risolvere la crisi. Ma secondo fonti interne il piano si fonda su cessate il fuoco immediato, formazione di un governo di unità nazionale, riforme della costituzione sui diritti delle minoranze ed elezioni sotto la supervisione internazionale.
Un piano serio approvato da Damasco che metterà in difficoltà tutti quegli attori che lavorano da anni per destabilizzare il Medio Oriente: Usa, Turchia, Golfo.
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