Il viaggio infinito

Il viaggio infinito

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SI PUÒ ancora dire qualcosa che non sia stato già detto a proposito dei migranti? Ci provo, partendo da una coincidenza radiofonica. La mattina del 12 agosto Radio 3 ha trasmesso, a mezz’ora di distanza, due servizi senza legame fra loro. Il primo, per il programma “Tutta la città ne parla” .
ERA DEDICATO a un nuovo dramma della migrazione: l’approdo di migliaia di fuggiaschi all’isola greca di Kos. Il secondo, per il programma “Radio 3 scienza”, era dedicato all’isola di Ventotene, tappa importante delle migrazioni di uccelli, e perciò dell’inanellamento da parte degli ornitologi volontari. Sono stato a sentirlo perché ho anch’io una passione per l’osservazione degli uccelli, ma dopo poche frasi mi sono accorto che il racconto si adattava tal quale ai migranti umani. Riassumo (ma potete andare a riascoltarlo: “La promessa del ritorno”). Per i grandi migratori della nostra parte del pianeta — grandi per le enormi distanze che coprono, ma possono essere uccellini di qualche grammo appena — le traversate più pericolose sono quelle del Mediterraneo e del Sahara: esattamente come per i migranti umani. Se sbagliano il vento, sono morti. In maggioranza, non sanno nuotare: se cadono in acqua, sono morti. Le isole — Ventotene come Lampedusa o Kos — offrono loro una sosta preziosa durante la traversata. Avevo appena sentito un siriano a Kos dire: «Certo che avevamo visto in tv i naufragi nel Mediterraneo. Ma fuggivamo da una morte certa». L’ornitologo alla radio ha detto: «Gli uccelli devono affrontare i pericoli di una morte probabile per scampare a una morte certa». Ho pensato che oggi un ornitologo parla proprio come una portavoce dell’Unhcr, e viceversa.
Gli uccelli migrano per due cause essenziali. La prima è, diciamo, naturale: la ricerca di territori in cui nidificare e riprodursi, nutrirsi, e ripararsi da climi estremi. La seconda è anch’essa naturale, perché gli animali umani appartengono anche loro alla natura; ma le appartengono con una specie di privilegio ( che ha il suo malaugurato rovescio) cosicché possiamo chiamarla una causa umana. È la modificazione umana dell’habitat, reso sfavorevole o proibitivo per la sopravvivenza degli uccelli: la scomparsa o la riduzione consistente degli insetti è l’esempio più evidente. Queste mutazioni “antropiche” possono sconvolgere le rotte degli uccelli migratori. Avrete già capito che cosa voglio suggerire: che le due cause primarie delle migrazioni degli uccelli ricalcano quelle degli umani, che si vogliono dividere fra migranti “economici” e profughi. Gli uccelli che, da che il mondo è mondo (il loro mondo, perché ci sono arrivati molto prima di noi) volano da un luogo all’altro, preferibilmente da nord a sud, sono “migranti economici”, in cerca di nutrimento e clima adatto. Gli uccelli che volano per sfuggire a territori che gli umani hanno reso inospitali o addirittura micidiali a loro e alla loro progenie, sono “profughi”. Le analogie non si fermano più: gli inanellatori di Ventotene — o dei posti altrettanto strategici per quei viaggiatori alati — vi hanno la loro “stazione di identificazione”. Si può pensare qualsiasi cosa sull’inanellamento, pratica non priva di rischi e di paura (gli uccelli sono catturati nelle reti e maneggiati per ricevere la loro matricola): essa però si conclude presto con la loro riconsegna al cielo libero, senza detenzioni né respingimenti. Trasformati da membri di una specie a singoli individui viventi, gli uccelli eritrei non devono temere che l’anello alla loro zampetta possa servire alle rappresaglie contro le loro famiglie. Sono milioni gli uccelli così registrati: una bella lezione, se solo la si volesse considerare, per le pratiche di identificazione e “inanellamento”, diciamo così, di migranti umani. La radio raccontava che peripezie affrontano i merli (sì, anche i merli, benché non tutti, migrano), a che altitudine volano le oche, che incredibili distanze coprono i pettirossi: e quante minacce fatali devono sventare lungo la rotta. Esattamente come gli umani.
Proviamo a trarre qualche lezione dal paragone. Gli animali umani migrano, da sempre, come le altre specie viventi, e si deve ricordarlo senza temere il loro orgoglio di signori del creato. Immaginare di metter fine alle migrazioni umane è come voler impedire alle rondini di andarsene e tornare (stiamo facendo anche questo, peraltro). Le migrazioni “economiche” — la fame, la carestia, i disastri naturali, la ricerca di una vita degna — sono quanto di più naturale esista, e basterebbe che ci ricordassimo di quando fummo noi migranti. Gli esodi provocati dalla mano umana, quando provoca la distruzione di ambienti necessari alla vita indigena, sono quelli sui quali è più possibile e necessario intervenire: per gli umani come per i pettirossi e le oche selvatiche. Auspicare l’accoglienza per chi bussa alle nostre porte, senza ripararsi ipocritamente dietro la distinzione fra migranti “economici” e richiedenti asilo (ipocrisia che solo la chiesa cattolica rifiuta), è moralmente necessario. Diventa praticamente efficace se ci si impegni a far finire le guerre per bande nei paesi di origine, e a castigarne i promotori, dall’Iraq alla Siria alla Libia; e sconfiggendo quelli offrire una speranza a chi langue sotto dittature spietate e non vede altra via che la fuga. E questo vale anche per gli uccelli, cacciati da terre e cieli occupati non da guerre di altri uccelli, ma di animali umani. I quali nel frattempo hanno imparato a volare, perfino più in alto delle oche himalayane, e però ai loro migranti non lasciano che dei gommoni sgonfi.
Raccontano gli ornitologi di buona volontà che a Ventotene dapprincipio incontrarono ostacoli seri, perché della stazione di passo gli isolani vivevano, per esempio catturando e vendendo a mezza Europa le quaglie per la caccia e il tiro a segno. Piano piano, gli isolani hanno cambiato abitudini, e hanno visto che il bird watching può giovare all’isola più e meglio che lo smercio delle quaglie. Qualcosa del genere, per gli animali umani, l’avevano già imparato gli isolani di Lampedusa, e magari ora quelli di Kos. O le navi mercantili che accettano di cambiare rotta e soccorrere i naufraghi e tirarli a bordo, e già sapevano che gli uccelli esausti, sopra il Mediterraneo, vengono a posarsi sui loro ponti, isole naviganti.


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