I click letali di Ama­zon

by redazione | 20 Agosto 2015 12:14

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Un reportage sul «New York Times» mette in evidenza una cultura aziendale basata sulla fedeltà assoluta, la delazione verso i lavoratori «riottosi» e i corsi di rieducazione per i quadri sfaticati. Elementi noti, ma che erano rimasti confinati nelle denunce di piccoli gruppi di attivisti. Ma la fortuna del colosso delle vendite on-line è costruita proprio sulla ossessione per la segretezza di quanto avviene nei suo stabilimenti e nella gestione ferrea della disciplina

Il mese scorso, a vent’anni dalla sua fon­da­zione, Ama­zon è stata valu­tata 250 miliardi di dol­lari, supe­rando così il masto­don­tico Wal­mart per affer­marsi come prima azienda di distri­bu­zione in Ame­rica. Il titolo in borsa è a livelli record e stando alla clas­si­fica di For­bes, Jeff Bezos idea­tore e ammi­ni­stra­tore del colosso digi­tale di Seat­tle è oggi il quinto uomo più ricco sul pia­neta..
Ma il suc­cesso del mega bazaar digi­tale di Bezos ha un lato oscuro docu­men­tato da ultimo in Inside Ama­zon, l’inchiesta del New York Times pub­bli­cata la scorsa set­ti­mana che dipinge l’azienda come un luogo di super­la­voro dove ope­rai e impie­gati sono osses­si­va­mente con­trol­lati e spinti a livelli di pro­dut­ti­vità sem­pre più esa­spe­rati pena il licen­zia­mento. Dall’indagine del Times e da nume­rose pre­ce­denti inchie­ste, emerge l’immagine di una cul­tura azien­dale i cui arti­coli di fede sono effi­cenza e pro­dut­ti­vità a sca­pito di ogni altra con­si­de­ra­zione, A tratti l’articolo,che ha rac­colto testi­mo­nianze di un cen­ti­naio di ex impie­gati «pen­titi», lavo­ra­tori epu­rati e «apo­stati», asso­mi­glia più ad un exposé su una setta reli­giosa che il ritratto di una azienda. La com­bi­na­zione della segre­tezza osses­siva carat­te­ri­stica di molte aziende della new eco­nomy e l’insistenza sulla disci­plina e asso­luta «lealtà» dei suoi 120mila impie­gati, resti­tui­scono l’immagine di una cul­tura azien­dale basata sul culto «orto­dosso» del lavoro.
Le testi­mo­nianze dei dipen­denti rac­con­tano della «ripro­gram­ma­zione» dei nuovi qua­dri a cui è chie­sto di «dimen­ti­care le cat­tive abi­tu­dini» apprese in pre­ce­dent posti di lavoro e seguire il deca­logo azien­dale di Ama­zon. I pre­cetti con­ten­tuti nei «prin­cipi di lea­der­ship» for­mu­lati da Bezos in realtà sono 14 in cui si dichiara la sod­di­sfa­zione del cliente «osses­sione» uffi­ciale dell’azienda e si richiede agli impie­gati di «dare il mas­simo», «mostrare spina dor­sale», «essere fru­gali», avere «alti stan­dard» e «svi­lup­pare il meglio» nei col­le­ghi. Que­sto ultimo man­dato com­prende appa­ren­te­mente l’invito a denun­ciare difetti e man­canze dei col­le­ghi ai superiori.

Alla dela­zione come pra­tica azien­dale si aggiun­gono le annuali «epu­ra­zioni» di per­so­nale inef­fi­ciente, email spe­dite dopo mez­za­notte seguite qual­che minuto dopo, in caso di man­cata rispo­sta, da richie­ste di giu­sti­fi­ca­zione e perio­di­che auto­cri­ti­che cui sono tenuti I qua­dri diri­genti. Una cul­tura alla radice di traumi emo­tivi descritti da molti inter­vi­stati che rac­con­tano di impie­gati e lavo­ra­tori che scop­piano fre­quen­te­mente in lacrime per la pres­sione impo­sta. Nei masto­don­tici magaz­zini, in cui viene smi­stata la mer­can­zia ven­duta da Ama­zon — i «cen­tri di esau­di­mento» nel new­speak vaga­mente orwel­liano della azienda – invece il van­gelo è rapi­dità ed effi­cenza. I lavo­ra­tori ven­gono con­trol­lati e moni­to­rati da ela­bo­rati sistemi di sor­ve­glianza e tele­me­trica in grado di rac­co­gliere dati su ogni indi­vi­duale movi­mento e spso­ta­mento utliz­zato dai lavo­ra­tori per svol­gere le loro man­sioni di sele­zione, tra­sporto e impac­chet­ta­mento della mer­can­zia. L’obbiettivo è la costante «otti­miz­za­zione del ser­vi­zio» cioè la dimi­nu­zione dei tempi di ese­cu­zione e l’innalzamento degli «obiet­tivi» deter­mi­nati da capi­re­parto.
Marc Onetto, vice­pre­si­dente Ama­zon, ha illu­stra­tao in pas­sato come l’azienda si sia avvalsa di esperti di effi­cenza giap­po­nesi dalla Toyota per otti­miz­zare le linee di pro­du­zione, dotando i pro­pri lavo­ra­tori di tra­smet­ti­tori di dati satel­li­tari per con­trol­larne i movi­menti.
Gli effetti di que­sto effi­cen­ti­smo sono stati docu­men­tati fra gli altri dal Mor­ning Call, pic­colo gior­nale cit­ta­dino di Allen­town, Penn­syl­va­nia, sede di un grade cen­tro di distri­bu­zione Ama­zon che nell’estate infuo­cata del 2011 aveva sta­zio­nate ai can­celli ambu­lanze per tra­spor­tare in ospe­dale lavo­ra­tori colti da malore. L’azienda aveva rifiu­tato di allen­tare i ritmi di pro­du­zione o aprire i por­toni dello sta­bi­li­mento per non com­pro­met­tere i dispo­si­tivi antifurto.

È una com­bi­na­zione di tay­lo­ri­smo e data mining che rivela come la «mac­china per costruire il futuro» – altro afo­ri­sma di Bezos – asso­mi­glia insomma a pra­ti­che di pro­to­ca­pi­ta­li­smo come appunto i «prin­cipi scien­ti­fici» di effi­cenza pro­dut­tiva for­mu­lati da Fre­de­rick Win­slow Tay­lor o Henry Ford all’inizio del secolo scorso. Pra­ti­che che abbi­nano effi­cen­ti­smo e meri­to­cra­zia – il culto dell’otimizzazione — degli oli­gi­poli di Sili­con Val­ley a tec­ni­che di data mining che ne sono il fon­da­tivo busi­ness model.
Si riscon­tra insomma nel modello Ama­zon il ten­ta­tivo di ride­fi­nire i para­me­tri di lavoro indu­striale secondo i pre­cetti di una pre­sunta uto­pia digi­tale i cui effetti si rile­vano nei dati sulla pro­dut­ti­vità in Usa, aumen­tata del 80% dal 1979 a fronte di un aumento dei salari di appena il 5%. Il fatto che nell’ambito della «rein­du­stria­liz­za­zione» digi­tale que­ste ten­denze ven­gano ride­fi­nite nei ter­mini di un mes­sia­ne­simo tec­no­lo­gico masche­rano appena la realtà di un eco­no­mia post-crisi in cui, al col­lasso delle retri­bu­zioni e delle tutele dei lavo­ra­tori cor­ri­spon­dono (non a caso) utili record delle cor­po­ra­tion.
Quando Bezos costi­tuì la sua libre­ria tele­ma­tica aveva l’ambizione dichia­rata, come amava ripe­tere, di farne un giorno un aggre­ga­tore pla­ne­ta­rio di libri non visto dai tempi della biblio­teca di Ales­san­dria. Ma la sua vera mira era in realtà molto più ambi­ziosa: l’impero di Bezos è ormai un cata­logo uni­ver­sale delle cose, un cor­nu­co­pia pla­ne­ta­ria di beni di con­sumo. Nello stesso modo in cui Ama­zon ini­zial­mente ha rot­ta­mato librai e distri­bu­tori sov­ver­tendo il sistema pro­dut­tivo e com­mer­ciale dell’editoria oggi l’azienda mira ad appli­care un pro­cesso simile al lavoro. Un pro­cesso già spe­ri­men­tato dal colosso «pre­cur­sore», Wal­mart, fon­dato su anch’esso su salari da soglia di povertà e iperlavoro.

In que­sta nuova «Amaz­zo­nia» del self-service per­pe­tuo c’è tanta libertà di con­sumo ma non ci sono ad esem­pio i sin­da­cati – come Wal­mart, Ama­zon ha sem­pre respinto la loro «inter­me­dia­zione» nei pro­pri magaz­zini, per­chè «con­trari agli inte­ressi dei con­su­ma­tori». La «libertà di con­sumo» di Ama­zon asso­mi­glia alla libertà di espres­sione di Face­book (dove i con­te­nuti sono sot­to­pro­dotti gra­tuiti) e la libertà di cono­scenza di Goo­gle (un altro mono­lito digi­tale che qual­che anno fa ha ten­tato di digi­ta­liz­zare ogni libro esi­stente sula terra). I doni del radioso futuro di Sili­con Val­ley in cui il prezzo siamo noi.

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