BARI . Racconta Marco, un caporale bulgaro che raccatta braccianti a pochi chilometri dai campi dove è morta Paola Clemente, che ultimamente c’è una merce particolarmente preziosa nel loro speciale mercato: «Gli italiani. Prima erano spariti, c’erano soltanto neri o est europei come me. Il lavoro nei campi veniva schifato. Ora, invece, hanno di nuovo bisogno di soldi e allora sono tutti qui. Accettano poco, non protestano mai». Marco è uno del mestiere. E in effetti non sbaglia. Gli schiavi italiani sono diventati la parte più appetibile del grande business del nuovo caporalato, un’enorme macchina mangia soldi che fa invidia al traffico di droga: sugli otto miliardi annui di giri di fatturato all’anno dell’agroalimentare, stima la Cgil Flai che non meno di un miliardo viene mangiato dalla fabbrica dei caporali. Seicento milioni sono i mancati contributi versati all’Inps, non meno di 400 sono invece i milioni “rubati” ai braccianti per l’intermediazione, il trasporto, il vitto e l’alloggio.
È qui che sta il cambio di passo. Negli anni i caporali hanno imparato che far lavorare gli stranieri, magari senza permesso di soggiorno, può essere molto pericoloso. Ci si espone ai controlli, la specializzazione è più bassa, è difficile tenerli sotto controllo. Sulla carta, invece, gli italiani si fanno lavorare in regola e dunque sono meno esposti alle verifiche. Questo nuovo caporalato è ben descritto nell’inchiesta “Sangue Verde”, che due settimane fa la Guardia di finanza di Foggia ha portato a termine arrestando un italiano e denunciandone cinque: il primo, Antonio Celozzi, aveva ufficialmente una ditta di trasporti. E, secondo l’accusa, reclutava e sfruttava i lavori delle braccianti che venivano trasportate tra la Puglia, il Molise e l’Abruzzo. In questa occasione sono stati denunciati anche i proprietari dei campi perché consapevoli dello sfruttamento.
È quello che ora vuole accertare anche il procuratore di Trani, Carlo Maria Capristo, che ha disposto l’acquisizione dell’inchiesta pubblicata ieri su Repubblica e ha allargato dunque l’indagine non soltanto alle cause della morte di Paola ma alle condizioni nelle quali era costretta a lavorare e alle modalità di reclutamento, tra agenzie interinali e “tour operator”. «Quel giorno aveva dolore alla cervicale, prese una pillola – ha raccontato un collega di lavoro – Poi all’improvviso abbiamo sentito urlare e Paola con la bava alla bocca: non c’è niente da fare ».
Tutti gli operai confermano che c’è una discrepanza tra busta paga e quanto va davvero ai braccianti (tra gli 11 e i 15 euro a giornata, la procura ha acquisito ora le buste paga) e che il reclutamento viene fatto tramite l’agenzia di trasporto che, per conto dell’agenzia interinale, la portava sui campi: si tratta di quel Ciro Grassi, già indagato per omicidio colposo e per omissione di soccorso e che però ha respinto ogni tipo di accusa. Inoltre è stata disposta l’acquisizione del certificato medico che avrebbe dovuto essere rilasciato prima dell’assunzione. «Il problema – spiega il procuratore Capristo – è che il caporalato viene visto dagli stessi lavoratori come normalità. Mi chiedo: quali provvedimenti sono stati adottati fino a ora per evitare quello a cui stiamo assistendo?».
La magistratura chiede dunque un nuovo intervento legislativo. E il governo è pronto a tornare a parlare di caporalato. Il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, incontrerà il collega al Welfare, Giuliano Poletti. In calendario una discussione, anche in questa sede, sulle agenzie interinali e quelle di trasporti. «Sarà un vertice al quale inviteremo le organizzazioni sindacali, le imprese agricole, l’Inps e costruiremo immediatamente una riflessione condivisa per andare avanti. Io penso all’idea di costruire delle task force territoriali necessarie soprattutto in alcune regioni ».