E l’Ungheria ha già alzato il suo muro “Mai più un profugo nei nostri confini”

by redazione | 13 Agosto 2015 8:45

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MÓRAHALOM . Ci vogliono 45 secondi esatti, cronometro alla mano. Il pilone di acciaio lungo sei metri entra con la forza due metri sottoterra; il macchinario che lo spinge giù — è un prodotto di alta tecnologia meccanica italiana, gli ingegneri ungheresi ne sono entusiasti — picchia come un martello a ritmi regolari, e fa lo stesso rumore di quando si chiude una bara. Sarà un caso, ma un po’ di Europa muore davvero qui, nella costruzione di questo muro alto quattro metri, rinforzato con il filo spinato, al confine tra Serbia e Ungheria. A mo’ di protezione contro l’invasione di un potente esercito straniero: migliaia di migranti pachistani, afghani e siriani esausti che attraversano i Balcani spesso a piedi.
Dopo l’annuncio del giugno scorso, il governo di Budapest guidato dal populista di destra Viktor Orbán ha messo il turbo alla costruzione del muro lungo 175 chilometri. Che infatti verrà ultimato il 31 agosto, dopo appena un mese e mezzo di lavori. Per fare subito, la progettazione e la messa in opera è stata affidata all’esercito, e insieme ai militari ci sono migliaia di disoccupati che in cambio di un reddito minimo sono tenuti a rispondere alla chiamata dello Stato.
Per arrivare al cantiere di Mórahalom, paese di cinquemila abitanti al confine dell’Ungheria meridionale, bisogna passare in mezzo ai campi di granturco e fare qualche chilometro di strada sterrata. C’è un accampamento di soldati e polizia, con gli operai che vanno e vengono portati coi camioncini in mimetica. Nei giorni scorsi i tecnici avevano fatto tre prove di muro: piloni di legno, veri e propri tronchi d’albero, con recinzione metallica; piloni e reticolato in acciaio; oppure un groviglio di di filo spinato, un rotolone sopra l’altro. «Alla fine — racconta Vedess, poliziotto, nome e numero identificativo sull’uniforme — si è scelta una via di mezzo tra le ultime due ipotesi. Piloni in acciaio, recinzione e un’aggiunta di filo spinato a terra. Così neanche se arrivano con la fiamma ossidrica ce la fanno…».
Dal 1° settembre lungo tutto il muro ci saranno i soldati a presidiare. Armati. Avranno anche la licenza di sparare? «Questo ancora non lo sappiamo, aspettiamo disposizioni», risponde. A poche centinaia di metri c’è la tenuta di Flórián, mais a perdita d’occhio. Indica un viottolo in mezzo alle piante, c’è qualche pannocchia mangiucchiata, bottigliette di plastica vuote, una ciabatta abbandonata: «Passano tutti di qui, ci sono volte che ne trovo qualcuno in fin di vita, agonizzante, quando arrivo al mattino. Ormai ho un rapporto regolare con ambulanze e polizia ». Molti altri, dice ancora, «sanno già tutto, sono muniti di tablet e hanno dei contatti: chiamano subito le autorità, vengono soccorsi e identificati, poi tentano di proseguire verso Germania, Austria e Svezia ». La spiegazione del perché, dopo lo sdegno iniziale, mezza Europa assista in silenzio all’innalzamento del muro, sarebbe proprio questa, ragionano qui: sanno tutti che a queste migliaia di disperati — 43mila nel 2014 — di restarein Ungheria interessa meno di niente. Le mete predilette sono altre. Orbán fa il cattivo e chiude le frontiere con la forza, ma a conti fatti conviene a molti, commenta un funzionario di polizia.
L’esibizione muscolare del governo sul tema immigrazione nei giorni scorsi ha fatto scoppiare un altro scandalo ancora, ma stavolta c’è stato un (parziale) dietrofront. Da Pécs, città di 160mila abitanti con antichissimo borgo medievale, ogni 24 ore partono due Intercity diretti a Budapest. Prima classe, seconda classe e “classe migranti”. L’ultimo vagone infatti è riservato ai rifugiati diretti a un centro di accoglienza e il primo giorno la compagnia di stato Magyar Államvasutak li aveva fatti viaggiare coi lucchetti alle porte ed un cartello: «Queste porte non possono essere aperte». Le associazioni umanitarie hanno protestato, i lucchetti sono stati tolti, ma resta la collocazione in fondo al convoglio, con i migranti spesso ammassati e che la notte prima del viaggio dormono per terra tra i sedili.
Alla stazione di Pécs c’è un monumento che ricorda lo sterminio degli ebrei. «Li ha uccisi l’odio, li protegge il ricordo», recita la stele. Garzó Gábor è un medico di Migration Aid, c’è un mini campo di soccorso proprio accanto alla statua dove lui presta aiuto: «È una specie di deportazione — dice — perché vieni ficcato su un treno, separato dagli altri, e non sai nemmeno dove sei diretto». I volontari mostrano le foto del piede di un bambino di quattro anni arrivato il giorno prima: non sembra neanche più un piede. Colpa delle punture degli insetti delle paludi serbe, spiega un altro dottore: «Lo abbiamo salvato, e facciamo tutto da soli. La sanità pubblica non li accetta». In compenso, si fa per dire, più volte li hanno minacciati gli estremisti di destra dello Jobbik. «La loro proposta è semplice: la chiamano perfino “soluzione finale”, proprio così. Di provocazione in provocazione, ci arriveremo», chiosa Gábor.
Il viaggio verso Budapest dura tre ore, con prima partenza alle 05.14. Alle 23 del giorno prima i ferrovieri avevano aperto l’ultimo vagone, così gli esuli hanno trovato un posto dove prendere sonno. La maggior parte non sono neanche maggiorenni. Il treno si muove e loro dormono ancora. Gli altri passeggeri neanche li considerano. I migranti si svegliano un’oretta prima dell’arrivo nella capitale. Uno di loro apre il finestrino, canta una canzone del suo paese e sembra quasi felice, nonostante i mille nonostante di tutta questa storia.
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