Dopo anni, ecco il rapporto Onu sulla strage dei Tamil

by redazione | 28 Agosto 2015 9:35

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Il treno si ferma nel cuore della notte in una pic­cola sta­zion­cina senza nome della linea Colombo Jaffna.

In realtà è arri­vato al con­fine della regione tamil di Vanni, che nello Sri Lanka com­prende quat­tro distretti che, con la peni­sola di Jaffna, for­mano la terra tamil. Sal­gono i mili­tari, fucile spia­nato, gio­va­nis­sima età, quasi nes­suna parola fuor della loro lin­gua. Chie­dono il passi per poter var­care la fron­tiera imma­gi­na­ria tra lo Sri Lanka a mag­gio­ranza sin­ga­lese e l’area dove la mag­gio­ranza è invece for­mata da tamil in gran parte indui­sti, una comu­nità venuta dall’India del Sud secoli fa.

Come del resto i sin­ga­lesi, adesso in mag­gio­ranza bud­di­sti. Non capiamo o fin­giamo di non capire: il passi non l’abbiamo. È il gen­naio dell’anno scorso e ci sono appena state le ele­zioni, con­clu­sesi con la disfatta del regime di Mahinda Raja­paksa, l’uomo che ai tamil ha fatto la guerra per anni e che, alla fine, l’ha vinta con una strage. Senza giu­sti­zia, nella piena impunità.

Il passi lo ave­vano levato ma adesso chissà, sem­bra di nuovo in vigore, forse per via delle ele­zioni. Gen­til­mente ma fer­ma­mente ci fan scen­dere la treno. La notte è umida e fre­sca ma non c’è nem­meno un po’ di luna a rischia­rare un pae­sag­gio così buio che nem­meno le mostrine dei sol­dati han l’occasione di brillare.

Nella sta­zione non c’è anima viva oltre le divise verdi. E nono­stante due gio­vani reclute di sesso fem­mi­nile che ridac­chano tra loro rom­pendo la ten­sione, un bri­vido gelato corre lungo la schiena.

Que­sta è terra di ese­cu­zioni som­ma­rie. Invece dopo un po’ arriva un camion mili­tare e si arriva velo­ce­mente al posto di blocco: un’enorme caserma con un palo abbas­sato. C’è una fila di tamil e qual­che turi­sta, come noi senza passi. «L’avevano levato», pro­te­sta un tamil con pas­sa­porto bri­tan­nico che viene trat­tato – a casa sua – come uno stra­niero. Chi è par­tito all’estero – e forse per que­sto si è sal­vato – paga que­sto prezzo. Uno di loro ci dà un pas­sag­gio la mat­tina dopo quando, dopo un fax a Colombo, veniamo liberati.

La car­reg­gia­bile A9 verso la peni­sola di Jaffna corre tra due ampi mar­gini di terra aggre­diti dalla fore­sta e del tutto incolti, inter­rotti da qual­che grossa fat­to­ria che sem­bra appena impiantata.

«Lo è – dice l’autista – sono ter­reni con­fi­scati e alie­nati a sin­ga­lesi man­dati qua per ripo­po­lare un’area che è stata svuo­tata di noi tamil. Non ci sono case lungo la strada? Sono state distrutte, la gente cac­ciata. E i ter­reni adesso dati a mili­tari che hanno finito la ferma.

Per loro c’è acqua, pozzi, sementi. Per noi per­sino l’obbligo di non cele­brare i nostri morti». Torna quel bri­vido lungo la schiena. Gelato e affi­lato come la lama di una baio­netta. La rivolta, latente da secoli, comin­cia nel 1983, quando si afferma un nuovo gruppo seces­sio­ni­sta, armato e orga­niz­zato: le Tigri per la libe­ra­zione della patria Tamil (Ltte) che chiede uno Stato sepa­rato da Colombo, il Tamil Eelam nel Nord dello Sri Lanka, su quasi un terzo della terra della Lacrima dell’Oceano indiano.

La cam­pa­gna mili­tare dura 26 anni e fini­sce, con una strage, nel mag­gio del 2009. L’offensiva si svolge durante l’assedio di Gaza (Piombo fuso) che oscura total­mente que­sto con­flitto secon­da­rio, con pochi testi­moni e migliaia di morti, almeno 70mila, forse di più.

L’Onu pub­blica sulla vicenda due rap­porti ma poi rin­via tutto alla Com­mis­sione per i diritti umani di Gine­vra (Hrc), che non si è ancora espressa.

Tra qual­che giorno però il dos­sier Sri Lanka, il rap­porto dell’Alto com­mis­sa­riato per i dritti umani, verrà pre­sen­tato alla Com­mis­sione dell’Hrc. È un rap­porto che ha fati­cato anni a venire alla luce e che adesso, se il calen­da­rio sarà rispet­tato, dovrebbe essere pre­sen­tato nel fine set­ti­mana al governo di Colombo, 48 ore prima di essere messo online, a dispo­si­zione dei dele­gati alla 30ma ses­sione della Com­mis­sione che si apre a metà settembre.

La discus­sione è pre­vi­sta per la fine del mese. La gesta­zione è stata lunga e que­sto spiega tante cose: pres­sioni di ogni tipo e inter­venti a gamba tesa di Colombo per pro­cra­sti­nare, annac­quare, boi­cot­tare il lavoro dell’Onu. A colpi di rin­vii intanto si è adi­ve­nuti a un accordo: il rap­porto con­si­glierà quel che va fatto ma senza fare nomi. Ce ne dovrebbe essere per tutti, governo e Ltte, ma le respon­sa­bi­lità indi­vi­duali, sem­bra di capire, reste­ranno nel vago. L’Ltte comun­que ha già pagato.

Hanno pagato con un mas­sa­cro le cui tracce vanno scom­pa­rendo. Per­sino i cimi­teri, i Tui­lum Illam (casa del sonno) «erano stati siste­ma­ti­ca­mente distrutti con i bul­do­zer», scrive Cri­stiana Natali in Oltre la nazione, un sag­gio a cura di Giu­seppe Bur­gio uscito da poco per Ediesse.

Una distru­zione con­dotta con la forza e obbli­gando la popo­la­zione civile a par­te­ci­parvi. Alla distru­zione siste­ma­tica delle memo­ria si accom­pa­gna «il pro­gramma di colonizzazione…e alla distru­zione dei cimi­teri — scrive ancora Natali — è seguita la pro­gres­siva occu­pa­zione dei ter­ri­tori del Nord e dell’Est da parte di cit­ta­dini singalesi».

Un segno evi­dente lo vediamo a Kili­no­ch­chi, l’ex capi­tale ammi­ni­stra­tiva delle Tigri: i cimi­teri sono scom­parsi ma c’è un enorme monu­mento al milite ignoto, guar­dato a vista da due sol­dati. È un pos­sente muro gri­gio con una pal­lot­tola dorata pian­tata in mezzo. A Kil­li­no­ch­chi di milite ignoto se ne può ono­rare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricor­dare i mar­tiri della seces­sione è reato.

La guerra con­tro l’Ltte doveva ter­mi­nerà tra l’ottobre del 2008 e il mag­gio del 2009, i mesi del ter­rore ricor­dati per una mano­vra a tena­glia costel­lata di bom­bar­da­menti sulle no fly zone con­trat­tate con l’Onu, in cui si con­cen­tra­rono alla fine – in un’area grande come Cen­tral Park a New York — oltre 300mila per­sone. Strette in una morsa che rac­chiu­deva tigri, resi­denti locali e sfol­lati. L’esercito chiude la morsa e stri­tola l’enclave. Il resto è silenzio.

Dire se ora le cose per i tamil del Nord cam­bie­ranno — dopo il rap­porto dell’Onu e soprat­tutto dopo la fine del regime di Raja­paksa — è dif­fi­cile anche se il nuovo pre­si­dente, Mai­th­ri­pala Siri­sena, deve la sua vit­to­ria elet­to­rale pro­prio ai tamil e ai musul­mani delle regioni settentrionali.

Infine il suo pre­mier, Ranil Wic­kre­ma­sin­ghe primo mini­stro per la terza volta, è stato un uomo che ha ten­tato di nego­ziare coi tamil prima che il regime deci­desse di chiu­dere la par­tita con la strage del 2009. Una strage ancora senza colpevoli.

La denun­cia del vescovo di Mannar

Il pri­mate di Man­nar Joseph Rayappu è un uomo pos­sente e dai modi auto­re­voli. Ci riceve nella casa vesco­vile alla peri­fe­ria di una città che è stata tea­tro di scon­tri impor­tanti e che, in alcuni casi, l’esercito ha messo a ferro e fuoco. Non è un uomo che ha peli sulla lin­gua anche se ogni parola è cali­brata. E pesa come un maci­gno. «C’è sem­pre stata una poli­tica chiara verso i tamil: distrug­gere il loro potere, pren­dere la loro terra (e ora vi sono qui più mili­tari che durante la guerra!) e costruire ovun­que tem­pli (bud­di­sti ndr). Far dei tamil nella loro terra una mino­ranza, distrug­gen­done anche la lin­gua e la cul­tura. Lo si potrebbe chia­mare geno­ci­dio strut­tu­rale. Poi c’è stato il mas­sa­cro vero e pro­prio e non con i numeri sinora prodotti».

L’Onu ha soste­nuto nel 2011 che nella sola fase finale del con­flitto i civili uccisi potreb­bero essere stati circa 40mila
Furono molti di più. Abbiamo fatto una rico­gni­zione con­fron­tando cen­si­menti e scom­parsi. Noi soste­niamo che pro­ba­bil­mente furono oltre 140mila. Per la pre­ci­sione a noi risul­tano 146.679 desa­pa­re­cido.
E la Com­mis­sione nazio­nale di inda­gine?
Non mi ha mai inter­ro­gato.
Prove oltre i numeri del cen­si­mento?
Un magi­strato mi ha rac­con­tato che tutto è stato fatto spa­rire a par­tire dai corpi: le ossa ince­ne­rite per non lasciare traccia

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