Cina, una svalutazione che aiuta l’export ma segna uno stop al «sogno cinese»

Cina, una svalutazione che aiuta l’export ma segna uno stop al «sogno cinese»

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Cina. Decisione storica sullo yuan contro il rallentamento economico. Pechino ha agito per aumentare le esportazioni, ma la scelta segnala un limite del «sogno cinese» del presidente Xi Jinping. Il passaggio da un’economia del «Made in China» a una del «Designed in China», sembra rimandato, per ora.

La Cina ha sva­lu­tato la sua moneta, lo yuan (Rmb), all’interno di una misura della Banca cen­trale a suo modo sto­rica. La sva­lu­ta­zione, la mag­giore ope­ra­zione degli ultimi vent’anni, porta la quo­ta­zione uffi­ciale della moneta nei con­fronti del dol­laro a 6.2298 (-1,9%).

Pechino ha agito per aumen­tare le sue espor­ta­zioni, pre­oc­cu­pando non poco chi vedeva nella Cina una futura «domanda» nel mer­cato inter­na­zio­nale, anzi­ché una nuova «offerta».

La stra­te­gia segnala anche un limite del «sogno cinese» lan­ciato nel 2012 da Xi Jin­ping e quel ten­ta­tivo, quasi un’alchimia date le carat­te­ri­sti­che sociali e cul­tu­rali del paese, di tra­sfor­mare la Cina in una moderna eco­no­mia basata sull’innovazione e trai­nata dal mer­cato interno, anzi­ché dalle esportazioni.

Pur nell’ambito di una scelta che è da con­si­de­rarsi di «sva­lu­ta­zione com­pe­ti­tiva», date anche le recenti deci­sioni di altri paesi nella regione (Austra­lia e Corea), l’atto della Banca cen­trale segnala una prima bat­tuta d’arresto di quel pas­sag­gio epo­cale che doveva por­tare dal «Made in China» al «Desi­gned in China».

Della deci­sione pechi­nese hanno sof­ferto in prima bat­tuta le borse euro­pee: le più pre­oc­cu­pate sono apparse le aziende fran­cesi e tede­sche, che temono una ripresa a loro sca­pito delle espor­ta­zioni di Pechino, men­tre è arri­vato anche il tonfo dei grandi mar­chi dei beni di lusso ter­ro­riz­zati dal calo del potere d’acquisto dei cinesi.

La ragione prin­ci­pale della deci­sione della Banca cen­trale è quella di favo­rire le espor­ta­zioni cinesi a fronte del ral­len­ta­mento eco­no­mico (7%). Nelle scorse set­ti­mane sono stati pub­bli­cati alcuni dati eco­no­mici: Pechino ha dovuto fron­teg­giare un crollo dell’8.3% delle espor­ta­zioni nel mese di luglio, col­pite dalla debole domanda pro­ve­niente da Europa, Stati uniti e Giap­pone, men­tre i prezzi della pro­du­zione sono al quarto anno di deflazione.

Altro dato macro: la deci­sione delle auto­rità di Pechino è arri­vata in un momento deli­cato nella regione, per­ché anche le monete di Austra­lia, Corea del Sud e Sin­ga­pore si sono deprez­zate. Se nell’area dun­que incom­bono pro­ble­ma­ti­che legate alle con­tese ter­ri­to­riali, appare ormai chiaro (con il Tpp all’orizzonte) anche uno scon­tro mone­ta­rio non da poco, nell’ambito di ope­ra­zioni, come quella cinese, che potreb­bero essere defi­ni­tive di «sva­lu­ta­zione competitiva».

Ma la scelta della Banca cen­trale cinese potrebbe indi­care anche un segnale poli­tico: il «sogno cinese» del Pre­si­dente Xi Jin­ping, che voleva un modello trai­nato dal mer­cato interno, per ora stenta. E Pechino torna alle vec­chie pra­ti­che, per altro non nuove nean­che per il mondo occidentale.

Le prime rea­zioni hanno una let­tura comune: Pechino ha sva­lu­tato la pro­pria moneta per due obiet­tivi pri­mari. In primo luogo per favo­rire le sue espor­ta­zioni e recu­pe­rare il ter­reno perso negli ultimi anni a causa della crisi che ha col­pito l’Occidente.

Si tratta quindi di ridare ossi­geno alle tante aziende che pro­du­cono il «made in China»; un passo indie­tro, un ritorno al soste­gno alla «fab­brica del mondo». In secondo luogo la mossa sarebbe stata richie­sta da un ten­ta­tivo in corsa da tempo, ovvero inclu­dere lo yuan, come ha scritto Reu­ters «in un paniere di valute di riserva cono­sciuto come Diritti Spe­ciali di Pre­lievo, che viene uti­liz­zato dal Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale per pre­stare denaro ai mutua­tari sovrani».

L’idea sarebbe quella di creare «una moneta più libera ed acces­si­bile», pre­re­qui­siti per otte­nere l’approvazione come valuta di riserva dal Fmi, che pure negli ultimi tempi ha fre­nato al riguardo (se ne par­lerà nel 2016). Pechino si affida dun­que al trucco cui sono ricorsi molti paesi occi­den­tali, senza che nes­suno abbia gri­dato allo scan­dalo. Ma natu­ral­mente è inte­res­sante pro­vare a capire che tipo di segnali manda, almeno inter­na­mente, una deci­sione del genere.

L’operazione oltre ad aver gio­cato un brutto tiro alle borse inter­na­zio­nali, potrebbe essere il sin­tomo di un pro­blema poli­tico e di gio­chi di potere in atto a Pechino.

Non a caso a per­dere di più ieri sono stati i titoli del lusso. È evi­dente che dalla Cina oggi ci si aspetta domanda, non l’offerta. E se la sva­lu­ta­zione favo­ri­sce lo yuan, inde­bo­li­sce la pos­si­bi­lità dei con­su­ma­tori cinesi (oltre al rischio di un’ingente fuga di capitali).

Ma c’è il nodo politico.

La deci­sione della Banca cen­trale dimo­stra i limiti del «sogno cinese» di Xi Jin­ping. Il «sistema Cina» non sem­bra in grado — quanto meno fino ad ora — di pro­durre quei mec­ca­ni­smi di inno­va­zione affin­ché si libe­rino le ener­gie pro­dut­tive che, pur con­trol­late, pote­vano assi­cu­rare il salto di qua­lità al paese (desi­de­rato dalla lea­der­ship). Il pas­sag­gio da un’economia del «Made in China» a una del «Desi­gned in China», sem­bra riman­dato, per ora.

Il sistema cinese, in cui la finanza e la poli­tica vanno a brac­cetto e sono orga­niz­zate attra­verso una strut­tura pira­mi­dale di rigido con­trollo da parte del Par­tito, dimo­stra tutti i suoi limiti nel muo­versi all’interno di mec­ca­ni­smi di mer­cato. E il Par­tito comu­ni­sta, che spe­rava di essere l’agente libe­ra­tore — sep­pure «con­trol­lore» — di que­ste ener­gie, ora rischia chia­ra­mente di fare da tappo.

Per ora agi­sce in difen­siva, tor­nando, di fatto, a rin­for­zare le aziende che pro­du­cono per l’esportazione e che da tempo erano entrate in una fase di sof­fe­renza. I nodi della strut­tura eco­no­mica cinese, quindi, sem­brano venire al pet­tine, a seguito di ral­len­ta­mento eco­no­mico, sbor­nia da borsa e le tante temute bolle, che pur rima­nendo sem­pre ad un livello di «quasi scop­pio» segnano in modo deter­mi­nante le sorti del paese.

Di toppa in toppa, biso­gnerà capire se dav­vero la Cina riu­scirà a bar­ca­me­narsi nel tenere in mano un modello eco­no­mico vario, per certi versi con­trad­dit­to­rio, ma che fino ad oggi aveva assi­cu­rato quanto di più impor­tante per la lea­der­ship e la popo­la­zione: la cre­scita e l’armonia sociale.



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