Vuoi studiare in Italia? Paga
Studenti. Li chiamano «Neet», lavorano in nero, finanziano un sistema che lo Stato vuole liquidare. Il rapporto Cnsu 2015 racconta come cinque anni fa l’Italia ha deciso di fare a meno del diritto allo studio e del welfare. Oggi questa è la realtà, raccontata con numeri e fatti drammatici.
Vuoi studiare? Allora paga. È il principale effetto dei tagli (1,1 miliardi di euro) imposti dal governo Berlusconi al sistema universitario. Studia chi può permetterselo. E se c’è qualcuno che proprio si ostina, allora gli si rende la vita impossibile al punto da spingerlo a lavorare in nero per mantenersi agli studi. Questo è il racconto della condizione studentesca contenuto nel rapporto 2015 del Consiglio nazionale degli studenti universitari (Cnsu), un organismo composto da 28 rappresentanti degli studenti e un dottorando a cui andrebbe riconosciuta più ampia rappresentatività e legittimità nell’azione legislativa.
Sette anni dopo la cura da cavallo con la quale il governo Berlusconi (Tremonti all’economia, Gelmini all’Istruzione) ha ridotto l’università ad uno stato comatoso, gli studenti oggi affrontano violente discriminazioni sociali e territoriali; crescenti diseguaglianze e una diffusa cultura classista nell’accesso ai saperi e alla formazione utile per difendersi dai ricatti del mercato del lavoro. Tra i paesi Ocse, l’Italia è l’unico ad avere tagliato le risorse negli anni della crisi globale. Nessuno, tanto meno il governo Renzi, ha pensato di rifinanziare un sistema al collasso. Anzi. La riforma dell’università, con il gigantesco apparato valutativo diretto dall’Anvur, serve ad amministrare un sistema sottofinanziato dove la regola è la competizione tra i pochi, il lavoro precario e gratuito dei molti, mentre le famiglie finanziano lo Stato che ha tagliato risorse e servizi essenziali.
Quando i diritti si pagano
Questa figura esiste solo in Italia. Pur possedendo i requisiti di reddito e di merito, nel 2013/2014, 46 mila studenti universitari non hanno ricevuto la borsa di studio (l’importo medio va dai 2887 euro in Basilicata ai 4.083 della Toscana) a causa dei tagli dello Stato e per la scarsità di risorse da parte delle regioni. Questi ragazzi sono stati costretti a rinunciare agli studi, a lasciare la città dove si sono trasferiti perché non avevano un posto nella casa dello studente o si sono arrangiati con lavori part-time o in nero per fare gli esami. Dal 2009 al 2013 lo Stato e le Regioni hanno garantito una borsa di studio mediamente solo al 76% degli idonei, lasciando senza borsa in media 42.400 studenti ogni anno. In definitiva si potrebbe riempire La Sapienza di Roma con tutti gli studenti idonei non beneficiari degli ultimi 5 anni.
Questa situazione è stata creata dai tagli al fondo nazionale per il diritto allo studio, rifinanziato in maniera insufficiente dal governo Letta. Il fondo integrativo, dopo un picco nel 2012, si è stabilizzato a 150 milioni. Finanziato dalle regioni e dallo Stato è del tutto insufficiente. Le risorse regionali si fermano al 23,6% con picchi opposti: l’Umbria con il 52,9%, il Veneto con un misero 7% e il Piemonte con zero euro. Il sistema resta in vita solo grazie alle tasse regionali versate dagli studenti: il 42,2% delle borse esiste grazie a loro. Rispetto a paesi come la Germania o la Francia, i servizi al diritto allo studio in Italia sono fermi alla preistoria. Coprono solo l’8,2% dell’attuale popolazione studentesca che ha registrato un calo delle immatricolazioni di oltre 30 mila unità in termini assoluti (da 307.713 a 266.162) tra il 2003 e il 2013.
Tasse alle stelle
Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre sono diminuiti gli iscritti all’università sono diminuiti del 17%. L’aumento della contribuzione studentesca è stata accompagnata dal taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario che ha portato gli Atenei ad aumentare gli oneri a carico degli studenti. Le tasse sono ormai un’entrata vitale per i bilanci degli atenei.
È il risultato di una precisa volontà politica che intende fare a meno della finanza e sfrutta i suoi fruitori. In questa direzione è andata la «liberalizzazione» delle tasse avviata dalla spending review del Governo Monti nel 2012 che ha escluso le tasse degli iscritti fuori corso dal rapporto tra le tasse e il fondo per gli atenei. Questa norma ha permesso di salvare dal default molte università. Le tasse vengono usate come strumento punitivo per penalizzare economicamente gli studenti fuoricorso che sono la maggioranza, in particolare quelli che lavorano. Qui il cerchio si chiude. Da idonei senza borsa a precari fuoricorso, la vita dello studente è praticamente un incubo.
I più sfavoriti sono al Sud dove gli esonerati dal pagamento della tassa di iscrizione sono il 15% contro il 10% al Nord e il 9% al Centro. Ma le diseguaglianze esistono anche in territori considerati omogenei. I livelli medi di tassazione oscillano tra i valori massimi dell’Università Iuav di Venezia (1.782) e del Politecnico di Milano (1.711) a quelli minimi delle Università di Parma (953) o del Piemonte Orientale (946). «Questi meccanismi sperequativi agiscono creano barriere nell’accesso alla formazione e alla ricerca» commenta Alberto Campailla, portavoce del Coordinamento Link.
Il paese del numero chiuso
E’ noto che l’Italia sia al penultimo posto tra i paesi Ocse per numero di laureati. Il fallimento del “3+2? della legge Berlinguer — di recente tornato in auge come sponsor ufficiale della “Buona scuola” di Renzi — è ormai conclamato. Dopo avere avviato il cosiddetto “Processo di Bologna”, l’Italia avrebbe dovuto sfornare laureati a getto continuo. Con titoli usa e getta, ricavati sulle esigenze volatili di un mercato ritenuto capace di generare sempre “nuove professioni”, quei riformatori ingenui pensavano di raggiungere il 40% dei laureati. Si sono fermati a molto meno, al 22%. Le mirabolanti promesse della «società della conoscenza» in cui il centro-sinistra prodiano credeva fermamente sono ormai un lontanissimo ricordo.
Oggi si chiude tutto, si sbarrano gli accessi alle facoltà e, soprattutto alle specializzazioni. Anche qui vige la legge: se vuoi andare avanti, paga. Anche se non c’è alcuna certezza nell’occupazione. Nasce così l’idea che per avere «successo» la formazione superiore dev’essere pagata cara, stringendo le maglie del numero chiuso (il 54 per cento dei corsi di laurea), senza per questo risolvere il problema dell’accesso alle professioni. Per fare un esempio, un terzo dei circa 10 mila aspiranti medici che di solito passano il test di ammissione alle facoltà di medicina non accederanno alla specializzazione.
Il rapporto Cnsu riporta un esempio che rende l’idea del circolo vizioso in cui vivono oggi gli studenti.Chi non passa il test a Medicina, di solito si iscrive a facoltà affini nella speranza di poterci rientrare negli anni successivi. A Padova, ad esempio, questo trasferimento ha comportato un aumento di immatricolazioni nei corsi di area biologica che hanno di conseguenza introdotto il «numero programmato» che è arrivato anche a scienze naturali e scienze e tecnologie ambientali.
Dottorato gratis
La regola aurea dell’università italiana — pagare per avere un diritto o per lavorare — segna profondamente anche l’esperienza di chi fa un dottorato, il primo gradino per chi vuole fare ricerca. L’introduzione del vincolo di copertura con borsa di almeno il 75% dei posti a bando, adottato dalle “Linee Guida” su indicazione dell’Anvur, ha generato una gravissima emorragia. Tra il 2013 e il 2014 si è passati da 12.338 a 9.189 posti, con una diminuzione del 25,5%. Gli atenei hanno ridotto le posizioni, invece di aumentare le borse. Ciò ha provocato la crescita dei dottorati senza borsa: 2.049 su 9.189 per il XXX ciclo. Contro questi giovani lavoratori privi di reddito gli atenei si accaniscono con tasse arbitrarie. «Anni di tagli stanno portando alla concentrazione del dottorato in pochi poli situati nelle aree forti del paese» sostiene Antonio Bonatesta, segretario dell’Adi.
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