Un piano del lavoro per noi e loro
È in corso in Europa una convergenza micidiale: una spinta nazionalistica e identitaria alimentata dalla crisi dell’euro e dal rigetto della burocrazia delle sue strutture; l’insofferenza verso i profughi, in fuga dalla guerra, ma sempre più difficili da distinguere dai profughi ambientali o dai “migranti economici”; il cinismo con cui governi e autorità dell’Unione hanno fatto quadrato contro il tentativo del governo greco di cambiare le regole dell’austerity, equiparandone l’operato a una colpa o a manifesta inferiorità.
C’è molto razzismo in tutti e tre questi processi: il giornale filogovernativo tedesco Die Welt ha giustificato le sue accuse contro i greci sostenendo che non sono i veri discendenti degli antichi abitanti dell’Ellade, ma un miscuglio di altre “razze”: turchi, albanesi, bulgari. Tutte degne, ovviamente, di disprezzo.
Questa miscela esplosiva è il frutto avvelenato delle politiche dell’Unione, ridotte a un feroce controllo ragionieristico dei conti degli Stati membri. Sono scomparse dal suo orizzonte tutte le grandi questioni: la lotta ai cambiamenti climatici (unica strada, anche, per rilanciare occupazione e sostenibilità economica); le guerre, dall’Ucraina al Medioriente; la dissoluzione sociale dell’Africa; i milioni di profughi prodotti da queste vicende.
Nessuna delle idee o delle azioni messe in campo ha la capacità o l’intento di contrastare quella micidiale convergenza di spinte autoritarie, identitarie e razziste. Ma tra tutte, centrale è ormai il problema dei profughi. Se la risposta ai tentativi di Syriza ha unito nella comune ferocia Stati e Governi, a spingere invece ciascuno per la propria strada, fatta di divieti, respingimenti, barriere fisiche e appelli identitari, sono i profughi.
In quell’allontanamento reciproco, tra governi comunque d’accordo, c’è però una vittima sacrificale. Anzi due: Grecia e Italia. Se non verranno espulse dal club dell’euro, come certo vorrebbero Schaeuble e i suoi tanti seguaci, a metterle ai margini dell’Unione sarà la scelta di condannarle a essere plaghe su cui scaricare il “peso” dei profughi che gli altri paesi non vogliono. Una nave inglese raccoglie nel Mediterraneo centinaia di naufraghi e li sbarca in Italia: «sono roba vostra». E’ la strada da seguire: la Francia lo fa a Ventimiglia; l’Austria al Brennero.
In queste condizioni interne e internazionali non si può più pensare di trattare quei profughi come un’emergenza temporanea, mescolando improvvisazione e sfruttamento delle circostanze nel modo più bieco (non solo con Buzzi e la sua rete, perché a fare le stesse cose è tutto l’establishment della cosiddetta accoglienza in mano alle clientele del ministro degli interni). Il tutto a spese sia di profughi e migranti, sia di territori e comunità cui viene imposto senza preavvisi e preparazione l’onere di una ospitalità malvista e, nel migliore dei casi, mal sopportata; alimentando così rivolte in cui sguazzano le truppe fasciste e gli appelli velenosi per metterle a profitto elettorale.
Nessuno ne vuol prendere atto, ma le guerre ai confini dell’Europa e la massa di profughi (oltre sei milioni) che preme su di essi ci dicono che il tempo della normalità, quello a cui tutti vorrebbero tornare e che i politici continuano a promettere, è finito per sempre. Vanno messe all’ordine del giorno, proprio a partire dalla questione dei profughi, revisioni radicali a tutte le politiche: in campo economico, ambientale, sociale, internazionale.
Perché i profughi e i migranti ambientali o economici che sbarcano in Italia sono destinati ad aumentare, e molto, per quanto dure e spietate possano essere le politiche di respingimento adottate. Che fare? Gestire la loro presenza in modo diverso è ineludibile: non si dovrà più concentrarli in grandi gruppi e imporne la presenza a comunità impreparate ad accoglierli. Ci vogliono progetti mirati per distribuirli su tutto il territorio nazionale: condizione irrinunciabile se non di integrazione, per lo meno di tolleranza nei loro confronti.
Non si potrà più tenerli per mesi o per anni a far niente, accuditi malamente, o in modo brutale, dal personale di cooperative e società a scopo di lucro largamente inadeguate: è degradante per la loro dignità, ma è anche uno schiaffo a chi vive accanto lavorando per campare, o senza alcun sussidio, se inoccupato. Per questo dovrebbero poter autogestire la propria permanenza e i relativi fondi (i famigerati 35 euro al giorno); impegnarsi nella pulizia, nella manutenzione o nella ristrutturazione dei locali dove vivono, negli acquisti e nella preparazione dei loro pasti, affidando a personale italiano, adeguatamente preparato, solo compiti di sostegno e controllo. E se la scuola si è rivelata un potente mezzo di conoscenza e tolleranza reciproca tra nativi e migranti, lavorare insieme avrebbe un’efficacia anche maggiore. Per questo dovrebbero poter lavorare in forme legali e retribuite (il loro impegno nel volontariato, promosso da alcuni sindaci, è sì meritorio; ma sconfina con lo schiavismo; o rischia di consolidare un mercato del lavoro parallelo).
Certo, anche solo proporre una politica del genere in un paese con tre milioni di disoccupati ufficiali e nove effettivi sembra eresia; ma potrebbe rivelarsi un’opportunità straordinaria. Si potrebbero costituire cooperative e imprese miste di migranti e disoccupati nativi (soprattutto giovani) per impegnarle nella rivitalizzazione di borghi e terreni agricoli montani abbandonati, secondo una proposta già avanzata da Alfonso Gianni e Tonino Perna sviluppando idee di Piero Bevilacqua; ma anche in tante attività ecologicamente necessarie come la protezione dei suoli dal dissesto, la ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma, la pulizia e la rinaturalizzazione di spiagge e greti di fiumi, ecc. O coinvolgerli in attività di assistenza a persone anziane o disabili, di istruzione e addestramento (molti tra loro hanno professioni, mestieri e competenze altamente qualificate) e in altri campi.
Ma chi pagherebbe? E’ lo stesso problema che pongono i nove milioni di disoccupati e inoccupati italiani: non si può aspettare che vengano assorbiti da una ripresa fantasma e da imprese che, anche quando prosperano, continuano ad “alleggerirsi” del loro carico di manodopera. Ci vuole un piano generale del lavoro come quello più volte prospettato da Luciano Gallino. Che collide frontalmente con le politiche di austerity e di disarmo economico imposte dall’Unione europea; ma la presenza di tanti profughi e migranti è una ragione in più, e delle più serie, per proporsi di rovesciarle, quelle politiche, azzerando così anche tanti motivi di competizione e rancore verso gli “stranieri”.
Un piano del lavoro del genere non può essere gestito dall’alto: ha bisogno di un’articolazione capillare e autonoma sul territorio; ma soprattutto di attori in grado di assumerne la gestione e di personale formato per avviarlo e per assisterlo sia in campo tecnico che organizzativo.
Dove trovarli? E’ questo un terreno decisivo di formazione e di selezione di una classe dirigente completamente nuova: quella di cui c’è bisogno. Il terzo settore – che non è solo Buzzi e Co — potrebbe fornire una prima base per mettere in piedi iniziative sperimentali in questa direzione; ma la selezione dei progetti e del personale dovrebbe essere affidata non alle clientele di ministeri, prefetti e giunte locali, bensì ad associazioni nazionali e locali di cui siano già state verificati competenze e rigore nella gestione di attività analoghe, come quella dei beni sequestrati alla mafia.
Tutto ciò sarebbe molto facilitato sostenendone l’aggregazione in associazioni delle varie nazionalità. Chi sfugge a guerre e miseria è messaggero di pace, pronto a impegnarsi perché nel suo paese si ricreino le condizioni del proprio ritorno, e ad attivare in tal senso anche i residui legami che mantiene con la propria comunità rimasta nei territori da cui è fuggito. Per questo associazioni di profughi e migranti potrebbero funzionare molto meglio di tanti governi fantoccio in esilio nel promuovere e orientare negoziati per riportare pace e democrazia nei loro paesi di origine.
Un pezzo importante, il migliore, di Africa e di Medioriente si ritroverebbe così a operare nel cuore stesso dell’Europa, trasformandone radicalmente i connotati: estendendone i confini ideali e la capacità di operare concretamente nel tessuto sociale dei paesi dove ora dominano guerre, miseria e dittature. E rendendo ogni giorno evidente, con la sua stessa presenza, che la missione dell’Unione europea, quella che la può salvare dallo sfacelo verso cui sta correndo, è proprio l’inclusione e la valorizzazione di chi ha raggiunto il suo suolo, con grande rischio, alla ricerca di pace, sicurezza, libertà.
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