“ Tutti a Cuba ”: l’assalto del business E l’isola impazzisce per il wi-fi libero

“ Tutti a Cuba ”: l’assalto del business E l’isola impazzisce per il wi-fi libero

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L’AVANA. E’l’effetto-Obama che si comincia a sentire? Il governo cubano annuncia l’apertura di 35 nuovi punti wi-fi, le connessioni pubbliche a Internet salirebbero rapidamente a 150. E’ un’apertura importante in un Paese dove l’accesso alla Rete finora è stato un privilegio élitario: ne gode solo il 5% della popolazione, per lo più i nuovi ricchi e i membri della nomenclatura. L’ampliamento degli accessi online si aggiunge ad altri cenni di liberalizzazione politica già registrati dopo il 17 dicembre, quando Barack Obama annunciò per la prima volta il nuovo corso americano: sarebbesceso del 5% il numero dei detenuti politici (l’anno scorso c’erano stati 9.000 arresti, di breve durata, tra dissidenti).
Dopo lo storico annuncio del presidente americano sulla riapertura dei rapporti diplomatici e la nomina dei rispettivi ambasciatori, la “caduta dell’ultimo Muro” della guerra fredda crea eccitazione. E’ più evidente nel comportamento degli stranieri: dai semplici turisti ai potenziali investitori. “Tutti a Cuba”, è lo slogan del momento. Gli americani — a cui formalmente è ancora vietato viaggiare su quest’isola — affollano i pochi voli di Air Canada via Toronto (carissimi e con mostruosi ritardi) pur di visitare L’Avana “prima che sia troppo tardi”. Cioè prima che la modernità, la globalizzazione, il business, stravolgano l’ultimo museo di un mondo che fu: questa stupefacente reliquia degli anni Cinquanta che è L’Avana, con le Cadillac decapottabili dei tempi di Humphrey Bogart, i bar retrò dove Ernest Hemingway e Ava Gardner sorseggiavano daiquiri e mojito, i fantasmi dei grandi musicisti come Ibrahim Ferrer del Social Club Buena Vista, le facciate decrepite dei palazzi coloniali spagnoli seicenteschi, o del primo Novecento la meravigliosa architettura liberty che ammuffisce sotto l’umidità tropicale. L’eccitazione crea il tutto esaurito negli alberghi anche in bassa stagione: a luglio qui fa già troppo caldo e umido, gli albergatori non avevano mai visto un tale flusso di turisti; vanno a ruba le case private, gli affitta- stanze.
Si muovono anche gli imprenditori italiani, per non farsi soffiare da altri “l’ultimo paese comunista ad aprirsi al Capitale” (forse). Il nostro ambasciatore Carmine Robustelli è alle prese con un problema inedito: troppi imprenditori in visita. La prossima settimana arriva qui una delegazione del sistema Italia guidata dal viceministro dell’economia Carlo Calenda e dal sottosegretario Mario Giro. Si erano iscritti di getto 100 partecipanti, ora siamo già a 150 tra imprenditori, manager, rappresentanti di banche e associazioni di categoria. Bisogna sistemarli in una città dove gli hotel cinque stelle sono pochi e già strapieni. La Sace, che assicura le nostre aziende esportatrici, stima che «l’export italiano può raggiungere i 220 milioni di euro entro il 2019». Una previsione alla quale la Sace aggiunge una condizione non scontata: «se viene realizzato il piano di riforme». E’ questa seconda frase, la chiave per capire lo scetticismo di molti cubani. Loro ricordano altre false partenze: in particolare i primi anni Novanta, quando la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Urss e quindi degli aiuti sovietici a Cuba, fu seguito da un primo annuncio di riforme economiche, una presunta transizione al mercato che non si è realizzata. Più di recente, sempre sotto la pressione dell’emergenza economica, quando pure il Venezuela in crisi ha lesinato i suoi aiuti, qualcosa si è mosso: soprattutto nel turismo, un settore dove comandano i militari, che paradossalmente sono l’ala più moderna del regime castrista. In questi giorni è all’Avana il top management del colosso italiano Msc, uno dei big mondiali delle crociere. Sfruttando l’handicap dei suoi concorrenti americani come Carnival e Royal Caribbean — l’embargo commerciale Usa è tuttora in vigore, Obama non può toglierlo senza l’assenso del Congresso — l’italiana Msc sarà la prima a offrire crociere con partenza dall’Avana, già a dicembre. E’ un successo prezioso, in un business turistico dove finora i più veloci sono stati gli spagnoli, con le loro grandi catene alberghiere come Melià.
Che tipo di economia avrà Cuba tra cinque, dieci o vent’anni, è una domanda a cui nessuno sa rispondere. Neppure il presidente Raul Castro, che a 83 anni può sperare di gestire solo i primi passi del nuovo corso. A quasi 60 anni dalla rivoluzione comunista del 1959, e dopo 54 anni di embargo americano, non ci sono modelli del passato a cui fare riferimento. Ai tempi pre-rivoluzionari sotto il dittatore Batista Cuba era diventata il bordello d’America, coi suoi casinò e la prostituzione in mano ai boss mafiosi Al Capone, Lucky Luciano, Sam Giancana. Il socialismo ha fatto pulizia, anche se oggi qualcuno teme che i rimasugli mafiosi tra i cubani- americani di Miami possano spingere i loro tentacoli sull’isola, riprendersi un business come quello della prostituzione che ha già ripreso a fiorire da anni, in maniera “artigianale”, con il turismo sessuale.
Il socialismo castrista ha imposto un’economia di guerra con tutte le sue distorsioni: i razionamenti e le tessere del cibo, il doppio regime valutario coi pesos che comprano poco, e gli ambitissimi Cuc ( Cuban currency units ) riservati a chi ha transazioni con gli stranieri. Il disastro dell’agricoltura — quest’isola fertile e rigogliosa è costretta a importare l’80% del fabbisogno alimentare — riduce anche le ricadute benefiche del turismo, perché i grandi alberghi e villaggi turistici devono comprare all’estero carne e pesce surgelato. E’ quello che i cubani con amarezza chiamano «il nostro embargo interno»: l’economia privata rimane minuscola, dà lavoro a mezzo milione di persone su 11 milioni di abitanti. Sono pochissimi i mestieri abilitati al profitto privato: ristoranti, taxi, meccanici, piccole cooperative edili. Tutto il resto è in mano a uno Stato invasivo, una nomenclatura intermedia che finora ha bloccato i timidi tentativi di rinnovamento annunciati dalla «famiglia reale»(così vengono chiamati Fidel, Raul Castro e parenti).
«Almeno, non siamo il Brasile» mi dice fiera una celebre ballerina, sposata a un imprenditore. Allude alla pochissima delinquenza: successo innegabile del socialismo, che fa di Cuba un’oasi di sicurezza nei Caraibi e tutta l’America latina. La distingue anche il “socialismo medico”, sanità d’avanguardia che esporta dottori per ridurre i 26 miliardi di dollari di debito pubblico (di cui 8 miliardi in default). Ci sono 30.000 medici cubani in Venezuela, 12.000 tra Brasile e altri paesi sudamericani, 12.000 in Africa: la principale fonte di valuta pregiata. Su questo fiore all’occhiello, c’è chi spera di poter innestare un nuovo business globale, trasformando Cuba in una piattaforma di ricerca biomedica per le multinazionali di Big Pharma. I più arditi tra i riformatori del regime guardano al modello di Israele, l’idea di trasformare un’intera nazione in una start-up.
Basta uscire dall’Avana, addentrarsi nella campagna povera e arcaica, per intuire lo scarto immenso tra questi slogan e la realtà.


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