Tre tonnellate di esplosivo contro l’Iraq in festa

by redazione | 19 Luglio 2015 9:52

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La rab­bia della gente è esplosa subito, accesa dal san­gue che lo Stato Isla­mico ha river­sato sulla festa di fine Rama­dan, l’Eid al-Fitr. L’ennesima pro­fa­na­zione della cul­tura, la sto­ria e la reli­gione di un popolo deva­stato da decenni di con­flitti e occu­pa­zioni stra­niere è arri­vata ieri a bordo di un fur­gone imbot­tito di esplo­sivo. Alla vista di tanta morte molti hanno preso d’assalto auto par­cheg­giate, rispar­miate dalla bomba, per sfo­gare un’impotente ira.

Oltre cento morti, 120 dice­vano ieri fonti medi­che, bilan­cio desti­nato a salire: un numero impre­ci­sato di civili si tro­ve­rebbe ancora sotto le mace­rie dopo che un kami­kaze ha vio­lato il mer­cato di Khan Beni Saad, città della pro­vin­cia di Diyala a 30 km da Bagh­dad. Diyala, il luogo che il sedi­cente califfo al-Baghdadi sogna come con­fine occi­den­tale del suo impero, che dall’ovest dell’Iraq dovrebbe arri­vare ad un altro sim­bolo della Sto­ria medio­rien­tale, Aleppo, in Siria.

Le noti­zie che gira­vano venerdì sera nei media rac­con­tano l’orrore: il mer­cato è scom­parso, cen­ti­naia di auto sono andate a fuoco, cra­teri hanno sosti­tuito le strade. Ven­di­tori ambu­lanti hanno svuo­tato le casse di pomo­dori per por­tare in salvo i bam­bini feriti o per tra­spor­tare i loro corpi senza vita. Secondo la rico­stru­zione della poli­zia, l’uomo a bordo di un pic­colo fur­gone si è spinto fino al cen­tro del mer­cato prima di farsi sal­tare in aria, durante l’ora del tra­monto, in mezzo alla folla in festa.

E men­tre Khan Beni Saad si tra­sfor­mava, insieme al suo Eid, in un incubo, in rete lo Stato Isla­mico riven­di­cava l’attacco: a bordo del fur­gone, scrive l’Isis, tre ton­nel­late di esplo­sivo hanno ven­di­cato i sun­niti di Hawija, città a nord del paese più volte tar­get dei raid Usa. A poco ser­vi­ranno le parole delle isti­tu­zioni ira­chene, per pla­care la rab­bia di un popolo sem­pre più diviso: ieri il pre­si­dente del par­la­mento, Salim al-Jabouri, ha attri­buito la respon­sa­bi­lità dell’attentato alla «disgu­stosa catena set­ta­ria» che inve­ste l’Iraq del dopo-Saddam e pro­messo di fer­mare l’Isis.

Ma che la pro­vin­cia di Diyala non sia mai stata sta­bi­liz­zata è un dato di fatto: pas­sata da mag­gio­ranza sun­nita a mag­gio­ranza sciita durante gli anni dell’invasione Usa, par­zial­mente occu­pata dagli uomini dello Stato Isla­mico lo scorso anno, era stata quasi del tutto libe­rata dalle forze gover­na­tive poco tempo dopo, gra­zie al soste­gno dei pesh­merga del Kur­di­stan ira­cheno. Ma le vio­lenze non sono mai ces­sate e, con fre­quenza rego­lare, scop­piano scon­tri tra forze di sicu­rezza e isla­mi­sti che ten­tano la via verso Bagh­dad. E la rab­bia e l’impotenza per chi ha perso il con­trollo della pro­pria vita ven­gono river­sati sul governo cen­trale: «La gioia per l’Eid si è tra­sfor­mata in dolore, abbiamo perso le nostre fami­glie, i nostri amici, e tutto per­ché il governo ha fal­lito nel darci sicu­rezza», gri­dava ieri un resi­dente di Khan Beni Saad dopo l’attacco.

Inu­tili le misure suc­ces­sive all’attentato: le auto­rità hanno posto nuovi chec­k­point, dispie­gato sol­dati e pre­vi­sto ulte­riori misure di sicu­rezza, ma resterà dif­fi­cile evi­tare simili car­ne­fi­cine fino a quando dal paese non sarà sra­di­cato il can­cro del calif­fato e le ragioni die­tro il suo suc­cesso mili­tare e di pro­pa­ganda. Ovvero le divi­sioni set­ta­rie interne all’Iraq del post-occupazione Usa, il sen­ti­mento radi­cato di discri­mi­na­zione pro­vato dalla comu­nità sun­nita che la spinge sem­pre più lon­tano da Bagh­dad, la per­dita dell’identità nazio­nale per cui Sad­dam aveva dato vita ad una com­plessa strut­tura di con­trollo, repres­sione e inclu­sione politica.

E, al di fuori, da fre­nare c’è la più ampia disgre­ga­zione medio­rien­tale figlia dei fra­gili equi­li­bri di potere di una regione in guerra civile e dei con­flitti per pro­cura tra i troppi attori regio­nali e internazionali.

E pro­prio alla comu­nità inter­na­zio­nale si è voluto rivol­gere ieri il più potente reli­gioso sciita del paese, che già ha più volte messo a dispo­si­zione la pro­pria voce per com­pat­tare la popo­la­zione con­tro la minac­cia isla­mi­sta. Il gran Aya­tol­lah Ali al-Sistani – molto più ascol­tato del pre­si­dente o del primo mini­stro, tanto da aver dato vita con una fatwa del 2014 alle Hashed al-Shaabi, le unità sciite di mobi­li­ta­zione popo­lare, oggi in prima linea con­tro l’Isis – ha fatto appello al mondo per­ché siano inviate armi più moderne all’esercito, che pos­sano com­pe­tere con quelle in mano all’Isis.

E si è appel­lato anche ai paesi vicini, in par­ti­co­lar modo – pur senza citarla – alla Tur­chia: chiu­dere i con­fini per impe­dire l’arrivo di altri rin­forzi stra­nieri nel gran cal­de­rone della pro­pa­ganda isla­mi­sta. Infine, si è rivolto al suo popolo: «Non si tratta solo di sciiti. In que­sta bat­ta­glia ci sono sciiti, sun­niti, cri­stiani, yazidi. Ho visto com­bat­tenti sun­niti nel mio uffi­cio. Que­sta non è una bat­ta­glia set­ta­ria». O almeno, non lo dovrebbe essere.

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