by redazione | 8 Luglio 2015 9:18
«Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi». Il linguaggio è quello che è, tipico del leghista Matteo Salvini che il 25 giugno scorso aveva sintetizzato così la protesta del Sap, il sindacato autonomo di polizia tanto conservatore quanto minoritario all’interno delle forze dell’ordine.
Ma il concetto è stato fatto proprio, né più né meno, dall’intera commissione Giustizia del Senato — Pd in testa — che ieri all’unanimità ha annullato di fatto le modifiche apportate alla Camera al testo della legge sulla tortura. In sostanza, la fattispecie del reato e le pene previste tornano alla stesura approvata in prima lettura dallo stesso Senato il 5 marzo 2014, e si allontanano sempre più dai trattati Onu pure ratificati dall’Italia.
In poche parole, diminuiscono le sanzioni, e il reato — che pure rimane comune e non proprio di pubblico ufficiale, come prescritto dalla Convenzione di New York e come chiedevano Amnesty International e altre associazioni — diventa ancora più generico. Affinché venga considerata tortura, per esempio, la violenza e la minaccia deve essere reiterata. Per essere crudi, una testa sbattuta contro un muro una volta non è tortura. Spariscono perfino, tra le finalità elencate per definire meglio la fattispecie, quelle discriminatorie etniche, religiose o sessuali. Così come sparisce quella locuzione — «per vincere una resistenza» — che tanto aveva irritato certa polizia.
«Bisognava pur tenere conto dei rilievi fatti dalle forze dell’ordine perché l’uso della forza non è solo facoltativo ma è d’obbligo durante atti legittimi come l’arresto», ha detto al manifesto il relatore del testo, Enrico Buemi (Autonomie), che si è detto «soddisfatto» del risultato anche se inizialmente «avevo proposto un reato specifico per pubblico ufficiale».
Ora, se l’Aula di Palazzo Madama confermerà le modifiche approvate ieri dalla commissione, il testo dovrà tornare di nuovo all’analisi dei deputati, continuando così un rimpallo tra le due camere che dura dal marzo 2013 e che molto probabilmente finirà con l’affossare la legge, come vuole certa polizia (non tutta), e come già avvenuto nel corso della scorsa legislatura. E mostrando così ancora una volta l’equilibrismo del premier Matteo Renzi che solo tre mesi fa esortava a non avere paura dell’introduzione della tortura nel nostro ordinamento. «Anzi — aveva detto il premier/segretario — si deve avere paura che non ci sia».
Il testo approvato ieri dalla Commissione di Palazzo Madama prevede pene che vanno da 3 a 10 anni di carcere (e non più, come nella versione licenziata dalla Camera, da 4 a 10) per «chiunque con reiterate violenze e minacce gravi (nella versione dei deputati era diventata «con violenza o minaccia»), ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico (non più solo «sofferenza psicologica grave» perché «non accertabile a distanza di tempo» secondo i senatori della commissione) a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa».
Rimane dunque inalterata quest’ultima frase che, secondo i deputati di Sel, rischiava con la sua ambiguità di escludere automaticamente situazioni come quella verificatasi all’interno della scuola Diaz durante il G8 di Genova, nella quale le vittime non erano sottoposte a stato di fermo né a custodia degli agenti autori del massacro.
Rimane l’aggravante se il reato è commesso da pubblico ufficiale ma la pena massima prevista (la minima è 5 anni) scende da 15 a 12 anni di carcere. Viceversa, è stato respinto l’emendamento del senatore Sergio Lo Giudice (Pd) che aboliva giustamente l’ergastolo previsto in caso di morte volontaria della vittima. «Non sono affatto soddisfatto di queste modifiche — ha confessato Lo Giudice al manifesto — anche se ho dovuto votare come il mio gruppo, come prescritto dal vincolo in commissione: la tortura è un reato specifico commesso da chi rappresenta lo Stato».
Infine, un passo indietro nell’evoluzione democratica anche per quanto riguarda i respingimenti o le espulsioni: nel testo della Camera uno straniero non poteva essere rimpatriato verso uno Stato dove avrebbe potuto essere oggetto di persecuzione, ma per la commissione Giustizia in questo modo sarebbe stato impedito qualsiasi respingimento. Ecco perciò che l’inammissibilità del rimpatrio è stata vincolata al caso che «esistano fondati motivi di ritenere che la persona rischi di essere sottoposta a tortura».
«Ma siccome i respingimenti si fanno alla frontiera — spiega Buemi al manifesto — gli agenti potranno attingere ad un elenco di Stati dove, secondo i report internazionali, si pratica abitualmente la tortura e la violazione dei diritti umani». Elenco dal quale ovviamente manca l’Italia. Almeno finora.
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