Con prudente scelta di tempo, dopo il referendum e dopo l’accordo europeo al quale pure si era opposto, Joseph Stiglitz è atterrato sul campo dove si combatte la battaglia intellettuale del momento. L’altro giorno era ad Atene per farsi consultare dal nuovo ministro delle Finanze Euklid Tsakalotos e incoraggiare l’ala intransigente di Syriza a tenere duro.
Per i greci questa è una battaglia di natura sanitaria più che di teoria economica, dato che la serrata delle banche ha fatto emergere carenze di insulina e altri farmaci fondamentali. Ma Stiglitz nei giorni scorsi aveva comunque invitato gli elettori ellenici a votare «No» nel referendum, magari senza valutare che le conseguenze per gli ospedali e la paralisi delle imprese, non sarebbero arrivate al suo appartamento di New York. Anche Paul Krugman, come Stiglitz premio Nobel per l’economia, aveva invitato gli elettori greci a votare contro l’accordo ma ieri alla Cnn ha riconosciuto che potrebbe non aver tenuto conto proprio di tutto: «Forse ho sopravvalutato la competenza del governo greco — ha detto —. Non sapevo che non avessero un piano d’emergenza».
Oggi in Grecia la stagione è cambiata, non le convinzioni di Stiglitz. Il Nobel ha spiegato a Tsakalotos che non deve cedere alle pretese degli europei e il suo è quasi un atto rituale degli economisti liberal Usa: dopo il crollo dell’Urss anche Jeffrey Sachs andò a Mosca a dare consigli per la ricostruzione. Stiglitz stesso divenne celebre con La globalizzazione e i suoi scontenti , una critica ai salvataggi di Thailandia, Malesia e Indonesia, dopo la crisi del ’97. Da allora i tre Paesi hanno ripreso a correre, ma l’economista non ha aggiornato il suo saggio. Né, per ora, la riflessione sulle conseguenze emerse sotto il sole cocente di Atene del «No» per il quale lui faceva il tifo dal suo refrigerato studio di Manhattan.