Le frasi sono ormai così scontate che l’occhio ci scivola sopra, tentando di combattere la noia. «A lungo termine, la prosperità di una nazione è strettamente legata alle competenze della sua popolazione, ovvero al suo capitale di conoscenze » sentenzia il ponderoso studio preparato per l’Ifo, uno dei più autorevoli think-tank tedeschi. E chi oserebbe mai proclamare il contrario? Un’inchiesta dell’ Economist rivela che, secondo il 51 per cento dei manager, un deficit di competenze zavorra i risultati delle loro aziende. E non ci avevano pensato? E’ su questa base che il Cedefop, un istituto di ricerca della Ue, fa l’oroscopo all’occupazione italiana. A breve, il 22 per cento delle possibilità di lavoro sarà riservato a professionisti e tecnici: ingegneri, esperti della salute o della finanza. Parlano i numeri: gli occupati ad alta qualificazione erano il 15,6 per cento del totale nel 2005. Salteranno al 30,8 per cento nel 2025: quasi uno su tre, invece di uno su sei. Per chi, quanto a competenze, sta un po’ peggio, ma ancora se la cava, terrà botta: 43 per cento dell’occupazione nel 2005, 47 per cento previsto per vent’anni dopo.
Per i non qualificati è la decimazione: quattro lavoratori su dieci, nel 2005, non avevano uno straccio di titolo da esibire, ma lavoravano lo stesso. Nel 2025, saranno quasi una rarità: due su dieci. Dunque, il messaggio è chiaro: ragazzi, studiate, preparatevi, il computer sempre sottobraccio, il vostro settore esplorato in profondità, ma capacità di saltare da un ramo all’altro, perché così si innova, si inventa, si spiazza la concorrenza. Eccetera.
Peccato che, di tutto questo, nessuno sembra aver informato gli imprenditori italiani, sui quali le parole dell’Ifo, dell’ Economist , le previsioni del Cedefop sembrano scivolare come acqua sulla pietra. Se il futuro del paese è nell’innovazione, nel capitale di conoscenze, nella knowledge economy, i datori di lavoro italiano hanno disertato. Peggio, si sono sparati sui piedi e su quelli del paese. Altro che Silicon Valley. I dati, infatti (quelli veri, non le proiezioni) dicono che, da anni, stanno tagliando selvaggiamente i posti di lavoro qualificati, a favore di quelli che richiedono solo medie o basse competenze. Il monitoraggio del mercato del lavoro, condotto ogni anno dall’Isfol, ci rivela, infatti, che, fra il 2007 e il 2012, il sistema economico italiano ha distrutto 379 mila posti di lavoro. Un’amputazione dolorosa, dovuta ad una delle crisi più severe degli ultimi decenni. Ma che non è scesa a pioggia, in modo uniforme, nelle fabbriche e negli uffici: gli imprenditori non hanno solo licenziato. Al contrario, è stata una decimazione accuratamente mirata, fatta apposta- alla faccia del Cedefop- per far fuori i migliori e premiare i mediocri (in termini di competenze e qualità professionali). I lavoratori considerati mediamente qualificati (i geometri, intesi come opposti agli ingegneri) sono infatti aumentati in modo considerevole: ne sono stati assunti 645 mila. E le aziende hanno anche rastrellato manovali e generici, i lavoratori a bassa qualifica: 369 mila in più. E il taglio? E’ avvenuto tutto più in alto, vicino alla testa. Nelle aziende e nelle imprese italiane, dopo cinque anni di crisi, ci sono 1 milione 393 mila occupati ad alta qualifica (gli ingegneri) in meno. In pratica, dei lavoratori baciati in fronte (nel mondo) dalla new economy, uno su sei, in Italia, ha perso, invece, il posto e la busta paga. La crisi ha determinato una mattanza. Gli imprenditori hanno deciso chi sacrificare.
Per una ripresa economica già fragile, l’insidia di cui ci riferisce l’Isfol è nuova e devastante, perché sembra escludere il paese dal modello di sviluppo abbracciato dal resto delle economie competitive. Nel 2007, i giovani che occupavano un posto ad alto profilo professionale erano il 33,8 per cento. Cinque anni dopo, il 28,8 per cento, cinque punti in meno, uno l’anno. E per chi aveva più di 34 anni, la riduzione è stata anche più secca: da più del 43 a meno del 37 per cento. Sono stati, insomma, gli anni della cacciata degli ingegneri? Non esattamente. I dati non consentono di capire in quanti casi è stato licenziato un ingegnere e, al suo posto, è stato assunto un geometra. Secondo Guido Baronio, che ha curato il monitoraggio dell’Isfol, «il fenomeno più comune è stato, probabilmente, un altro: il licenziamento dell’ingegnere e la sua riassunzione con la qualifica di geometra. O, ancora più frequente, la sostituzione di un ingegnere che se ne va con qualcuno, inquadrato in una qualifica più bassa». Sta esplodendo, infatti, in Italia, il problema dei “sovraeducati”. Le aziende richiedono qualifiche altissime per un’assunzione, a prescindere dalla posizione che deve essere occupata. Ovvero, un laureato trova lavoro con meno difficoltà di un diplomato, ma bisogna capire a fare che. Il caso più noto è la Fiat che, per lo stabilimento di Melfi, richiedeva ai candidati la laurea o un diploma con una votazione molto alta, anche se poi li sistemava alla catena di montaggio. Ma il fenomeno è diffusissimo: secondo i dati dell’Isfol, nel 2007 i laureati che occupavano un posto di lavoro che non avrebbe richiesto una laurea erano il 14,2 per cento del totale. Nel 2012, erano saliti quasi al 20 per cento.
Non è la stessa cosa assumere un ingegnere per fargli fare un lavoro da ingegnere e assumere un ingegnere, per fargli fare un lavoro da geometra. Quello che interessa agli imprenditori è che, nel secondo caso, la busta paga è più bassa. Ma cambiano anche gli spazi professionali, i margini di autonomia decisionale, le responsabilità, il contributo che il lavoratore può portare. La spia di quanto avviene davvero nelle fabbriche e negli uffici la dà un dato dell’Ocse. Solo il 3 per cento dei giovani italiani non usa il computer a casa o in vacanza. Ma più della metà, in ufficio, un computer non lo vede neanche. In altre parole, nelle aziende italiane si stanno restringendo non solo le buste paga, ma anche mansioni e competenze. Il risultato è allontanare il paese dalla prospettiva di una ripresa vivace e sostenuta. «La crisi – dice Baronio- non agisce in maniera neutrale, ma impoverisce il contenuto professionale dell’occupazione e, in ultima analisi, deprime ulteriormente la competitività del sistema produttivo nazionale ». Del resto, all’estero si sono mossi in modo assolutamente opposto, nonostante la crisi. Il 33 per cento degli occupati italiani, nel 2012, fra giovani e adulti, aveva un posto ad alto profilo professionale. In Francia, Olanda, Inghilterra, Danimarca, Svezia, siamo oltre il 45 per cento. E, negli anni della crisi, mentre in Italia la loro quota precipitava del 15 per cento, in quei paesi aumentava, anche del 10 per cento. E’ aumentata, sia pur di poco, anche in Spagna.
Magari è vero, come fanno capire alla Fiat, che paradossi apparenti, come gli ingegneri alla catena di montaggio di Melfi, sono solo temporanei, percorsi sperimentali di apprendistato. Ma, in termini generali, i dati dicono il contrario. Fra il 2006 e il 2007, i laureati che trovavano, dopo il periodo iniziale successivo all’assunzione, una collocazione coerente con la loro qualificazione professionale erano poco più di uno su sei. Fra il 2011 e il 2012 ci è riuscito solo uno su venti. Gli altri sono rimasti intrappolati.