Referendum in Gre­cia, un no contro l’umiliazione

by redazione | 3 Luglio 2015 9:02

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Grecia. Le politiche dei memorandum europei hanno fatto perdere al paese un quarto del Pil in sei anni: con il «sì» ai tagli di spesa, la depressione sarebbe senza fine. Se invece vincesse il «no» all’austerità, il governo Tsipras otterrebbe un mandato più forte per negoziare con i «creditori»

Dopo­do­mani sera dalle urne gre­che potrebbe uscire un «sì» al refe­ren­dum indetto dal governo di Ale­xis Tsi­pras. Il mini­stro delle finanze Yanis Varou­fa­kis ha annun­ciato ieri che si dimet­te­rebbe; non potrebbe fir­mare un memo­ran­dum — una ver­sione ritoc­cata di quello su cui si sono rotte le trat­ta­tive la set­ti­mana scorsa — che riporta l’austerità nel paese e non affronta la ristrut­tu­ra­zione del debito.

È dif­fi­cile che il governo Tsi­pras possa soprav­vi­vere; le nuove pro­po­ste che ver­ranno da Ber­lino e Bru­xel­les saranno fatte appo­sta per ren­dere la vita impos­si­bile alla coa­li­zione tra Syriza e Anel; molti depu­tati non saranno dispo­ni­bili a votare una resa. Un cam­bio di governo ad Atene è pro­prio quello che i poteri euro­pei hanno per­se­guito in tutti que­sti mesi; ora sono vicini a riu­scirci e use­ranno ogni stru­mento per desta­bi­liz­zare il paese e spin­gere i greci al «sì»; a quel punto le nuove pro­po­ste di Ber­lino e Bru­xel­les potranno spia­nare la strada a un nuovo ese­cu­tivo obbe­diente alla troika.

Oltre alla cam­pa­gna media­tica, l’arma deci­siva usata con­tro Atene è stata la stretta sulla liqui­dità che ha por­tato il governo Tsi­pras a chiu­dere le ban­che per una set­ti­mana e bloc­care i movi­menti di capi­tale. Non c’è nulla come il panico ban­ca­rio che sti­moli un riflesso d’ordine nei paesi che hanno spe­ri­men­tato il benes­sere. Mario Dra­ghi ha cer­cato di met­tere le auto­rità euro­pee di fronte alla respon­sa­bi­lità poli­tica della scelta da fare sulla Gre­cia, ma le misure che ha preso sono pro­prio quelle che hanno stran­go­lato il paese. È ragio­ne­vole pen­sare che sia stato Dra­ghi a impe­dire ad Atene di intro­durre per tempo il blocco dei movi­menti di capi­tali. In nome delle regole comuni, cen­ti­naia di miliardi di euro sono usciti dalla Gre­cia: ric­chi e imprese sono ora al sicuro e non in fila agli spor­telli. Ma non aver fer­mato que­sta fuga di capi­tali ha dis­san­guato l’economia del paese.

In cam­bio, ci sono stati gli 89 miliardi di fondi di liqui­dità di emer­genza, che sono stati bloc­cati dopo la rot­tura delle trat­ta­tive, pro­vo­cando la chiu­sura for­zata delle ban­che fino a mar­tedì prossimo.

Ma prima ancora del man­cato paga­mento del debito al Fondo mone­ta­rio, la Bce aveva richie­sto mag­giori garan­zie per i cre­diti da con­ce­dere alle ban­che gre­che, ridu­cendo il cre­dito al paese e aumen­tan­done il costo.

In base alle sue regole, inol­tre, la Bce non può pre­stare fondi a ban­che insol­venti, ma le ban­che gre­che hanno in bilan­cio soprat­tutto titoli di stato che non ven­gono accet­tati a pieno valore e si tro­vano in molti casi in «quasi default» secondo alcune agen­zie di rating: niente cre­dito anche sui mer­cati pri­vati dei capi­tali, quindi. Insomma, per le regole insen­sate della moneta unica, è diven­tato sem­pre più dif­fi­cile far arri­vare mate­rial­mente euro in Gre­cia per far fun­zio­nare l’economia.

Lunedì, la for­ni­tura di liqui­dità è la prima cosa che la Bce dovrà deci­dere per evi­tare il col­lasso dell’economia del paese. Ma dome­nica sera dalle urne di Gre­cia potrebbe uscire un «no» all’umiliazione del paese e all’austerità. Le poli­ti­che impo­ste dai memo­ran­dum euro­pei hanno fatto per­dere al paese un quarto del Pro­dotto interno in sei anni: con il «sì» ai tagli di spesa la depres­sione sarebbe senza fine. Il governo Tsi­pras ha chia­rito fino in fondo che il «no» sarebbe un man­dato più forte per nego­ziare, non c’è nes­suna ipo­tesi di uscita dall’euro. Ma con chi si nego­zia? Su quali pro­po­ste? La par­tita sarebbe com­plessa, la Ger­ma­nia forse irre­mo­vi­bile, ma non baste­rebbe più sca­ri­care le colpe su Tsi­pras. Una poli­tica degna di que­sto nome por­te­rebbe alle dimis­sioni del Pre­si­dente della Com­mis­sione Junc­ker, che ha chie­sto ai greci di votare «sì» ed è stato inca­pace di far fronte alla crisi.

L’agenda su cui nego­ziare dovrebbe essere diversa dai punti deci­mali di avanzo pri­ma­rio e dalle ali­quote iva.

Dovrebbe essere la ridi­scus­sione di come si sta in que­sta Europa e nell’euro. L’occasione sarebbe per­fetta per con­vo­care una grande con­fe­renza sul debito in Europa, per intro­durre la «mutua­liz­za­zione» su cui il mini­stro dell’economia ita­liano Pier Carlo Padoan si è detto così ottimista.

Si potrebbe intro­durre una respon­sa­bi­lità comune sul debito dell’Eurozona che por­te­rebbe a zero gli spread (come sono stati tra l’introduzione dell’euro e la crisi del 2008) e la tra­sfor­ma­zione di una parte del debito pre­gresso in titoli per­pe­tui a ren­di­mento zero da lasciare nei bilanci di Bce e fondi euro­pei. Solu­zioni più che dige­ri­bili per la finanza. E che per­met­te­reb­bero all’economia di tutta Europa di uscirà dalla depres­sione ini­ziata nel 2008. Con grande sol­lievo – tra l’altro – degli Stati uniti.

Ma le con­di­zioni poli­ti­che per una stra­te­gia di così ampio respiro sono tutte da costruire: i socia­li­sti e demo­cra­tici (e i verdi) dovreb­bero final­mente scon­trarsi con demo­cri­stiani e con­ser­va­tori, Fran­cia e Ita­lia scon­trarsi con Ber­lino, Mer­kel scon­trarsi con Schau­ble, l’economia reale limi­tare i danni che ha fatto la finanza. È que­sta la vera par­tita che si gioca dome­nica nel refe­ren­dum di Gre­cia, ed è uno scon­tro che ritro­viamo in tutta Europa.

Il voto di Atene è un punto di svolta. A guar­dare vicino, se vince il «sì» Tsi­pras potrebbe per­dere tutto; se vince il «no» Tsi­pras potrebbe non gua­da­gnare nulla. Ma a guar­dare lon­tano, il «sì» pro­lun­ghe­rebbe l’agonia del paese e lasce­rebbe mano libera alla disa­strosa inca­pa­cità tede­sca di coman­dare l’Europa. Il «no» affer­me­rebbe che un po’ di demo­cra­zia esi­ste ancora in Europa e che cam­biare si può.

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