Referendum in Grecia, un no contro l’umiliazione
Grecia. Le politiche dei memorandum europei hanno fatto perdere al paese un quarto del Pil in sei anni: con il «sì» ai tagli di spesa, la depressione sarebbe senza fine. Se invece vincesse il «no» all’austerità, il governo Tsipras otterrebbe un mandato più forte per negoziare con i «creditori»
Dopodomani sera dalle urne greche potrebbe uscire un «sì» al referendum indetto dal governo di Alexis Tsipras. Il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha annunciato ieri che si dimetterebbe; non potrebbe firmare un memorandum — una versione ritoccata di quello su cui si sono rotte le trattative la settimana scorsa — che riporta l’austerità nel paese e non affronta la ristrutturazione del debito.
È difficile che il governo Tsipras possa sopravvivere; le nuove proposte che verranno da Berlino e Bruxelles saranno fatte apposta per rendere la vita impossibile alla coalizione tra Syriza e Anel; molti deputati non saranno disponibili a votare una resa. Un cambio di governo ad Atene è proprio quello che i poteri europei hanno perseguito in tutti questi mesi; ora sono vicini a riuscirci e useranno ogni strumento per destabilizzare il paese e spingere i greci al «sì»; a quel punto le nuove proposte di Berlino e Bruxelles potranno spianare la strada a un nuovo esecutivo obbediente alla troika.
Oltre alla campagna mediatica, l’arma decisiva usata contro Atene è stata la stretta sulla liquidità che ha portato il governo Tsipras a chiudere le banche per una settimana e bloccare i movimenti di capitale. Non c’è nulla come il panico bancario che stimoli un riflesso d’ordine nei paesi che hanno sperimentato il benessere. Mario Draghi ha cercato di mettere le autorità europee di fronte alla responsabilità politica della scelta da fare sulla Grecia, ma le misure che ha preso sono proprio quelle che hanno strangolato il paese. È ragionevole pensare che sia stato Draghi a impedire ad Atene di introdurre per tempo il blocco dei movimenti di capitali. In nome delle regole comuni, centinaia di miliardi di euro sono usciti dalla Grecia: ricchi e imprese sono ora al sicuro e non in fila agli sportelli. Ma non aver fermato questa fuga di capitali ha dissanguato l’economia del paese.
In cambio, ci sono stati gli 89 miliardi di fondi di liquidità di emergenza, che sono stati bloccati dopo la rottura delle trattative, provocando la chiusura forzata delle banche fino a martedì prossimo.
Ma prima ancora del mancato pagamento del debito al Fondo monetario, la Bce aveva richiesto maggiori garanzie per i crediti da concedere alle banche greche, riducendo il credito al paese e aumentandone il costo.
In base alle sue regole, inoltre, la Bce non può prestare fondi a banche insolventi, ma le banche greche hanno in bilancio soprattutto titoli di stato che non vengono accettati a pieno valore e si trovano in molti casi in «quasi default» secondo alcune agenzie di rating: niente credito anche sui mercati privati dei capitali, quindi. Insomma, per le regole insensate della moneta unica, è diventato sempre più difficile far arrivare materialmente euro in Grecia per far funzionare l’economia.
Lunedì, la fornitura di liquidità è la prima cosa che la Bce dovrà decidere per evitare il collasso dell’economia del paese. Ma domenica sera dalle urne di Grecia potrebbe uscire un «no» all’umiliazione del paese e all’austerità. Le politiche imposte dai memorandum europei hanno fatto perdere al paese un quarto del Prodotto interno in sei anni: con il «sì» ai tagli di spesa la depressione sarebbe senza fine. Il governo Tsipras ha chiarito fino in fondo che il «no» sarebbe un mandato più forte per negoziare, non c’è nessuna ipotesi di uscita dall’euro. Ma con chi si negozia? Su quali proposte? La partita sarebbe complessa, la Germania forse irremovibile, ma non basterebbe più scaricare le colpe su Tsipras. Una politica degna di questo nome porterebbe alle dimissioni del Presidente della Commissione Juncker, che ha chiesto ai greci di votare «sì» ed è stato incapace di far fronte alla crisi.
L’agenda su cui negoziare dovrebbe essere diversa dai punti decimali di avanzo primario e dalle aliquote iva.
Dovrebbe essere la ridiscussione di come si sta in questa Europa e nell’euro. L’occasione sarebbe perfetta per convocare una grande conferenza sul debito in Europa, per introdurre la «mutualizzazione» su cui il ministro dell’economia italiano Pier Carlo Padoan si è detto così ottimista.
Si potrebbe introdurre una responsabilità comune sul debito dell’Eurozona che porterebbe a zero gli spread (come sono stati tra l’introduzione dell’euro e la crisi del 2008) e la trasformazione di una parte del debito pregresso in titoli perpetui a rendimento zero da lasciare nei bilanci di Bce e fondi europei. Soluzioni più che digeribili per la finanza. E che permetterebbero all’economia di tutta Europa di uscirà dalla depressione iniziata nel 2008. Con grande sollievo – tra l’altro – degli Stati uniti.
Ma le condizioni politiche per una strategia di così ampio respiro sono tutte da costruire: i socialisti e democratici (e i verdi) dovrebbero finalmente scontrarsi con democristiani e conservatori, Francia e Italia scontrarsi con Berlino, Merkel scontrarsi con Schauble, l’economia reale limitare i danni che ha fatto la finanza. È questa la vera partita che si gioca domenica nel referendum di Grecia, ed è uno scontro che ritroviamo in tutta Europa.
Il voto di Atene è un punto di svolta. A guardare vicino, se vince il «sì» Tsipras potrebbe perdere tutto; se vince il «no» Tsipras potrebbe non guadagnare nulla. Ma a guardare lontano, il «sì» prolungherebbe l’agonia del paese e lascerebbe mano libera alla disastrosa incapacità tedesca di comandare l’Europa. Il «no» affermerebbe che un po’ di democrazia esiste ancora in Europa e che cambiare si può.
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