Prigioni, bande e odio I ragazzi della rivoluzione ora hanno solo macerie

Prigioni, bande e odio I ragazzi della rivoluzione ora hanno solo macerie

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TRIPOLI «Spreco, un grande spreco» e «fine della sovranità, collasso dello Stato, trionfo del caos»: sono le frasi più ripetute per le strade della capitale. Pur se con inflessioni diverse, le pronunciano praticamente tutti. I vecchi militanti filo-Gheddafi, per nulla corroborati dal sentimento amaro di essere stati vendicati dalla storia, e gli ex ribelli, tantissimi pentiti, che adesso non sanno più a che santo votarsi per uscire da questo incubo senza fine.
Definiscono «nakba», catastrofe, la rivoluzione di quattro anni fa. Davanti a loro un Paese in rovina. Bab al-Azizia, il vecchio quartier generale di Gheddafi, oggi è un cumulo di macerie e rottami abitati da bande di ladri. Tutto attorno al venerdì si tiene una sorta di fiera popolare per poveracci. I ribelli avevano abbattuto i muri a simbolo della libertà riconquistata. Però il tasso di criminalità era poi diventato talmente alto che hanno dovuto nuovamente cintare l’area. All’orizzonte troneggia la sagoma carbonizzata dei grandi magazzini di Aisha, la figlia del dittatore. Vi si trovavano ristoranti alla moda, boutique esclusive. Ma sette mesi fa i radicali islamici di Ansar al Sharia lo hanno dato alle fiamme. La motivazione? Ragazzi e ragazze vi si incontravano senza il controllo delle nuove autorità. Il cortile del terribile carcere di Abu Selim è stato trasformato in mercato delle auto usate. Tuttavia, tanti rimpiangono la prigione centrale. Visto che adesso le milizie hanno le loro celle segrete prive di qualsiasi controllo dello Stato centrale.
«Sino alla primavera dell’anno scorso eravamo ancora numerosi a credere che la Libia si sarebbe risollevata, il futuro appariva migliore dei quattro decenni della dittatura di Gheddafi. Le nostre illusioni sono state cancellate dai combattimenti del luglio-agosto 2014. Le milizie divise: quella di Misurata in lotta fratricida contro quella di Zintan per il controllo dell’aeroporto di Tripoli. Speravamo si accordassero. Ma alla fine l’odio ha prevalso e quei pazzi hanno scelto di distruggerlo. Poi è stato il baratro. E oggi i leader europei si sbagliano circa la possibilità di un’intesa mediata dall’Onu tra i due governi di Tobruk e Tripoli. Non c’è accordo, vince la guerra tra milizie anarchiche dominate da elementi sempre più estremisti», esclama Issam Zuber, 54enne commentatore politico di Tripoli noto per il suo coraggio, arrestato un paio di volte dalle milizie. Il suo pessimismo è confermato quasi ovunque ci siamo recati tra la capitale e i suoi dintorni nell’ultima settimana. Un esempio sul degenerare della situazione è quello della possibilità di viaggiare.
Viaggiare da Tripoli a Zuara, la cittadina 120 km a ovest dove lunedì scorso sono stati rapiti i quattro tecnici italiani. Soltanto martedì i taxisti e i giornalisti locali erano pronti a condurvi un reporter italiano. Ma negli ultimi tre giorni la regione è in subbuglio. Sono in corso aspri combattimenti tra Alba della Libia, la coalizione di bande armate legate a Tripoli, e le tribù filo-Gheddafi e alleata a Tobruk dei Warshefana, che dal deserto compiono blitz coi gipponi sulla strada costiera tra la raffineria di Zawiyah e Sabratah. «Arrivano con volto coperto, piazzano posti di blocco volanti. Se il tuo nome corrisponde a una delle tribù legate al Fronte Islamico che domina Tripoli vieni rapito. Qualcuno è ucciso per vendetta, altri sono rilasciati per un riscatto dai 20 ai 50mila euro. I rari stranieri, se individuati, non hanno scampo. Valgono molto di più», spiega Mohammad Azumi, ex capitano di rimorchiatori che gli attivisti di Misurata tennero prigioniero «per accertamenti» dal settembre 2011 all’ottobre 2012. Lo accusavano di aver aiutato la marina di Gheddafi. Poi venne rilasciato. In cella vide gente torturata ai genitali con l’elettricità, poveracci appesi ore per i piedi, altri lasciati morire di sete. Da allora gli hanno negato stipendio e pensione. Lui stesso tre giorni fa andando in auto a Sabratha è stato fermato quattro volte. «La situazione sicurezza sta degenerando. Nelle prossime ore (probabilmente domani, ndr.) il tribunale di Tripoli renderà nota la sentenza contro Saif Al Islam, il delfino di Gheddafi, e un’altra trentina di esponenti del vecchio regime. Sarà allo stesso tempo l’ennesimo segnale della debolezza dei dirigenti di Tripoli, dato che Saif è in cella a Zintan e non sono certo loro a controllare la sua sorte. Ma anche della volatilità della situazione, visto che i suoi fedelissimi cercheranno di lanciare blitz di vendetta».
Le botteghe dei cambia-valuta e dell’oro a Shouk al Mushir, il quartiere vicino al forte medioevale nella città vecchia, danno il polso della crisi. «Sino al giugno 2014 un euro si cambiava a 1,80 dinari. Ma da dieci mesi è salito a 2,60. La gente compra solo valuta straniera. Segno che si aspettano tempi peggiori e nuova svalutazione. Ci saranno altri combattimenti. E’ finito l’entusiasmo del 2012. Temiamo il futuro e rimpiangiamo il passato», dice Ahmad Azulai seduto su pacchi di dinari intonsi nel suo negozietto rimasto vuoto per tutto il pomeriggio. Così prevale la nostalgia. La memoria del dittatore di ieri, con il suo bagaglio di capricci, eccessi, ingiustizie abissali, guadagna in statura, addirittura appare come un profeta garante della sicurezza nazionale. «Gheddafi ci aveva detto che dopo di lui sarebbe arrivata Al Qaeda; che Derna, Bengasi e la Cirenaica sarebbero cadute nelle mani di fanatici islamici. Aveva predetto la piaga dell’Isis. Io pensavo allora difendesse il suo regime. Invece aveva ragioni da vendere», esclama Mohammad Milu, uno dei tanti sostenitori dell’ex dittatore che ne sogna una replica fedele. Incredibile che a pensarla come lui siano anche i ragazzi delle barricate, i volontari della prima ora nel febbraio 2011. «Avessi saputo che andava a finire in questo modo, non avrei mai imbracciato il fucile», ammette Kheiri Abdulsalam, uno dei tanti pentiti. Prima lavorava nel deserto a sud di Sirte per la compagnia petrolifera nazionale. Da marzo però il suo cantiere è minacciato dai militanti di Isis. Ed è costretto a restare a casa.
Lorenzo Cremonesi


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