Obama in Kenya: «L’Africa corre» Chiede più diritti (ma è gelo sui gay)
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NAIROBI (KENYA) «Una cosa è certa: la prossima volta qui ci verrò in jeans e con lo zaino in spalla. E saranno con me anche Michelle, Sasha e Malia». Più che una promessa (difficile da mantenere, visto che anche gli ex presidenti Usa fanno una vita da semireclusi per motivi di sicurezza), è una liberazione, quella di Obama. Il Kenya ha accolto il «suo» Barack con entusiasmo (c’è anche chi ha battezzato «AirForceOne» il figlio nato in questi giorni), ma lo rimprovera per la lunga assenza.
Così, alla fine di una difficile conferenza stampa con Uhuru Kenyatta nella quale Obama accredita il discusso presidente keniota come un agente del cambiamento democratico mentre quest’ultimo non gli concede nulla sui diritti dei gay, pressato dai giornalisti che gli chiedono conto degli scarsi risultati della sua politica per l’Africa, il leader americano sfodera la sua reazione da «saccopelista»: «George Bush e Bill Clinton hanno fatto più di me per l’Africa? Ne sono felice, non è mica una gara tra presidenti. L’iniziativa di Bush contro l’Aids ha salvato milioni di vite umane. Io ho cercato di continuarla perché era valida. Non sono venuto prima in Kenya perché il Paese lo conoscevo già, ho qui le mie radici, e non volevo dare la sensazione di fare favoritismi: devo essere il presidente di tutti gli americani, davanti a tutto il mondo. Paradossalmente potrò fare di più per il Kenya quando non sarò più alla Casa Bianca».
Ma già ieri Obama ha fatto molto: inaugurando la conferenza sull’imprenditoria in Africa, ha celebrato la crescita e la modernizzazione del Kenya, «un Paese che corre e nel quale le donne imprenditrici sono uno dei principali motori dello sviluppo». Poi si è immerso nei colloqui con Kenyatta dai quali è uscita una più stretta cooperazione economica e un rafforzamento dei legami nella lotta ai terroristi di Al Shabaab che, assicura Obama, stanno perdendo terreno in Somalia, anche se sono ancora pericolosi. Merito del governo di Mogadiscio che, dopo una lunga latitanza, ora sta riprendendo il controllo del Paese, e della collaborazione dei Paesi vicini: soprattutto il Kenya, che otterrà dagli Usa nuovi equipaggiamenti e addestramento per le sue unità impegnate nella lotta contro le centrali del terrore. Ma anche dell’Etiopia, dove Obama arriverà stasera, una volta completata la missione a Nairobi.
I presidenti americani, Obama compreso, fin qui avevano evitato di visitare i Paesi più difficili dell’Africa, dove la parola democrazia significa poco e il rispetto dei diritti umani lascia molto a desiderare. Ma, davanti a nazioni che crescono tumultuosamente e alla necessità di rafforzare i rapporti con chi si impegna davvero contro il terrorismo, Barack ora cambia rotta: «Meglio andare e parlare chiaro con questi governi, piuttosto che boicottare» ha spiegato lo stesso presidente Usa. «Abbiamo più possibilità di incalzare i regimi autocratici, di stimolare il cambiamento venendo qui a parlare di diritti civili e di lotta alla corruzione».
Con Kenyatta, un leader che fino a pochi mesi fa ha rischiato un processo per crimini contro l’umanità, Obama ha fatto molto di più: dimenticato il passato, gli ha dato atto di essere sulla buona strada («la nuova Costituzione del Kenya è tra le più avanzate dell’Africa, mentre le elezioni di due anni fa sono state competitive, anche se non prive di problemi») e ha accettato di discutere con lui avendo al tavolo anche il vicepresidente William Ruto, che ancora rischia un’incriminazione del Tribunale internazionale dell’Aia.
Lo smacco più grosso, però, è venuto sulla questione dei diritti dei gay che in Kenya (come in gran parte dell’Africa) sono punibili (fino a 14 anni di carcere) per il solo fatto di avere rapporti omosessuali: «Attenti a non discriminare per le tendenze sessuali, è così che comincia l’erosione delle libertà» ha ammonito Obama. Ma Kenyatta lo ha bloccato subito: «Siamo d’accordo con gli Usa su molto, ma non su questo: ci impegniamo a combattere la corruzione, a promuovere il ruolo delle donne, a rispettare di più i diritti delle minoranze, ma per noi la questione della tutela dei gay non esiste. È un problema che non viene percepito come tale dalla nostra cultura e dalla nostra gente. E questo è un fatto».
Massimo Gaggi
Così, alla fine di una difficile conferenza stampa con Uhuru Kenyatta nella quale Obama accredita il discusso presidente keniota come un agente del cambiamento democratico mentre quest’ultimo non gli concede nulla sui diritti dei gay, pressato dai giornalisti che gli chiedono conto degli scarsi risultati della sua politica per l’Africa, il leader americano sfodera la sua reazione da «saccopelista»: «George Bush e Bill Clinton hanno fatto più di me per l’Africa? Ne sono felice, non è mica una gara tra presidenti. L’iniziativa di Bush contro l’Aids ha salvato milioni di vite umane. Io ho cercato di continuarla perché era valida. Non sono venuto prima in Kenya perché il Paese lo conoscevo già, ho qui le mie radici, e non volevo dare la sensazione di fare favoritismi: devo essere il presidente di tutti gli americani, davanti a tutto il mondo. Paradossalmente potrò fare di più per il Kenya quando non sarò più alla Casa Bianca».
Ma già ieri Obama ha fatto molto: inaugurando la conferenza sull’imprenditoria in Africa, ha celebrato la crescita e la modernizzazione del Kenya, «un Paese che corre e nel quale le donne imprenditrici sono uno dei principali motori dello sviluppo». Poi si è immerso nei colloqui con Kenyatta dai quali è uscita una più stretta cooperazione economica e un rafforzamento dei legami nella lotta ai terroristi di Al Shabaab che, assicura Obama, stanno perdendo terreno in Somalia, anche se sono ancora pericolosi. Merito del governo di Mogadiscio che, dopo una lunga latitanza, ora sta riprendendo il controllo del Paese, e della collaborazione dei Paesi vicini: soprattutto il Kenya, che otterrà dagli Usa nuovi equipaggiamenti e addestramento per le sue unità impegnate nella lotta contro le centrali del terrore. Ma anche dell’Etiopia, dove Obama arriverà stasera, una volta completata la missione a Nairobi.
I presidenti americani, Obama compreso, fin qui avevano evitato di visitare i Paesi più difficili dell’Africa, dove la parola democrazia significa poco e il rispetto dei diritti umani lascia molto a desiderare. Ma, davanti a nazioni che crescono tumultuosamente e alla necessità di rafforzare i rapporti con chi si impegna davvero contro il terrorismo, Barack ora cambia rotta: «Meglio andare e parlare chiaro con questi governi, piuttosto che boicottare» ha spiegato lo stesso presidente Usa. «Abbiamo più possibilità di incalzare i regimi autocratici, di stimolare il cambiamento venendo qui a parlare di diritti civili e di lotta alla corruzione».
Con Kenyatta, un leader che fino a pochi mesi fa ha rischiato un processo per crimini contro l’umanità, Obama ha fatto molto di più: dimenticato il passato, gli ha dato atto di essere sulla buona strada («la nuova Costituzione del Kenya è tra le più avanzate dell’Africa, mentre le elezioni di due anni fa sono state competitive, anche se non prive di problemi») e ha accettato di discutere con lui avendo al tavolo anche il vicepresidente William Ruto, che ancora rischia un’incriminazione del Tribunale internazionale dell’Aia.
Lo smacco più grosso, però, è venuto sulla questione dei diritti dei gay che in Kenya (come in gran parte dell’Africa) sono punibili (fino a 14 anni di carcere) per il solo fatto di avere rapporti omosessuali: «Attenti a non discriminare per le tendenze sessuali, è così che comincia l’erosione delle libertà» ha ammonito Obama. Ma Kenyatta lo ha bloccato subito: «Siamo d’accordo con gli Usa su molto, ma non su questo: ci impegniamo a combattere la corruzione, a promuovere il ruolo delle donne, a rispettare di più i diritti delle minoranze, ma per noi la questione della tutela dei gay non esiste. È un problema che non viene percepito come tale dalla nostra cultura e dalla nostra gente. E questo è un fatto».
Massimo Gaggi
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