MA L’IMMIGRAZIONE NON È UN’EMERGENZA

MA L’IMMIGRAZIONE NON È UN’EMERGENZA

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C’È sicuramente razzismo nelle proteste degli abitanti dei quartieri di Treviso e Roma che si sono visti arrivare tra le proprie case, da un giorno all’altro, decine di immigrati, spesso alloggiati in condizioni di degrado (a Treviso mancava persino l’acqua e l’elettricità). Ma ci sono anche i mestatori politici che non aspettano altro per soffiare sul fuoco dell’insofferenza e della paura. Ed è inaccettabile che si impedisca persino, come è avvenuto a Treviso, la distribuzione del cibo a chi è arrivato senza nulla. Ma c’è soprattutto la reazione di chi sente le condizioni della propria vita quotidiana minacciate da un terremoto sociale improvviso, da decisioni di cui si sente ed è vittima, senza essere stato consultato e tanto meno preparato. È in larga misura la conseguenza dell’insipienza, del pressapochismo del governo e del ministero degli interni, che sembrano continuare a trattare gli arrivi dei migranti, per lo più fatti sbarcare sulle nostre coste dalle navi di soccorso, come un fenomeno imprevedibile e imprevisto. Nel migliore dei casi si invitano le regioni, i comuni, i prefetti, a trovare alloggi, con l’unico criterio della distribuzione numerica, non anche con quello della analisi dei contesti, degli equilibri numerici più adeguati, delle necessarie misure di sostegno non solo ai migranti, ma alla popolazione che deve accoglierli.
Mentre si chiede insistentemente che l’Europa faccia la sua parte, lo Stato italiano non fa la sua. Anzi, si comporta con gli enti e le comunità locali esattamente come rimprovera all’Europa, scaricando, letteralmente, su di loro la responsabilità di trovare soluzioni senza alcuna preparazione o preavviso, con le prefetture che spesso non sembrano capaci di interloquire con i governi locali e questi con le loro comunità, dove la soluzione più facile e ovvia sembra spesso quella di trovare qualche edificio degradato, qualche quartiere periferico già in sofferenza di cui non ci si preoccupa di aumentare il disagio e le tensioni.
Sta succedendo, in modo molto più massiccio e rapido, quello che era avvenuto negli anni Ottanta e Novanta in molti quartieri di edilizia popolare nella grandi città, quando gli abitanti appartenenti a un ceto di lavoratori a reddito modesto, che avevano conquistato la sicurezza di una abitazione dignitosa, videro progressivamente modificare le caratteristiche dei propri vicini, man mano che in quei quartieri venivano concentrati, dalle politiche pubbliche, tutti i possibili “casi sociali”, con un peggioramento consistente della qualità della vita e talvolta della sicurezza dei vecchi abitanti.
Sono ovviamente d’accordo che i migranti in attesa delle verifiche del loro status ( non sto parlando di quelli regolari, come invece fa sempre il governatore del Veneto, equivocando a bell’a posta) siano distribuiti sul territorio, alleggerendone il peso che grava sproporzionatamente sulle regioni meridionali e sul Lazio. La questione è che occorre arrivarci in modo non emergenzia-le, pensato e costruito come un processo complesso, che deve riguardare non solo i migranti, ma anche le comunità che li accolgono. Non si possono modificare dall’oggi al domani le caratteristiche sociali di un quartiere, mandandovi cento alla volta migranti spaesati, che non conoscono la lingua né gli usi del posto, che devono ricostruire una normalità in un contesto estraneo. Come sanno anche le cooperative sociali più serie che si occupano di migranti, non si può fare accoglienza seria e tanto meno attività di integrazione a livello di massa, ma solo con piccoli numeri. Ciò vale anche per i quartieri, i cui abitanti, inoltre, non possono essere considerati semplici ricettori di decisioni prese altrove, senza consultarli.
Come mostrano i casi più virtuosi, e ce ne sono, occorre un lavoro paziente di negoziazione e di costruzione di percorsi condivisi, che garantisca accompagnamento al processo e anche contropartite a chi legittimamente pensa che il valore della sua casa crollerà o che la sicurezza complessiva sarà indebolita. E possibilmente evitando di coinvolgere quartieri che hanno già grossi problemi e in cui lo Stato non è molto presente. Non si elimineranno i conflitti, ma se ne conterranno le forme più estreme e, soprattutto, si restituirà sia ai migranti in attesa di decisione sia ai cittadini tra cui vanno a vivere la dignità di essere trattati civilmente, da soggetti responsabili. Altrimenti il razzismo continuerà a funzionare da copertura per una politica insipiente e i mestatori e predicatori d’odio avranno buon gioco per le proprie scorrerie.

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