Giovedì 9 luglio, ore 22. Il premier ha deciso. Le banche sono chiuse da due settimane, il paese è in ginocchio. Lui e i suoi hanno lavorato tutto il giorno a una bozza di compromesso con l’ex Troika: 12 miliardi di sacrifici in cambio di un piano di aiuti e un taglio al debito. Il premier sa che rischia di dividere il partito. Ma è deciso. Parte la mail per Bruxelles, Francoforte e Washington.
Venerdì 10 luglio, ore 8. Si riunisce il gruppo parlamentare di Syriza. Tsipras è diretto: «Vi dico la verità, senza fingere che sia tutto perfetto. È la fine di una dura battaglia. Ci sono sacrifici, ma rinegozieremo il debito», spiega. Piattaforma di sinistra, la minoranza forte di 40 voti decisivi in aula, si mette di traverso. E dopo tre ore di discussione arriva il primo siluro: «Il compromesso non rispetta il programma del partito» dice Panagiotis Lafazanis, ministro all’Energia e leader dei radicali. Syriza e Governo iniziano a scricchiolare.
Ore 17. Si susseguono decine di incontri ad alta tensione per mediare. «Non possiamo tradire referendum ed elettori. Avevamo promesso di non firmare nuovi memorandum e di chiudere con l’austerity» dicono i ribelli. «Non potete far cadere il primo governo di sinistra della Grecia!», chiede la maggioranza. Arriva un’intesa dal sapore democristiano. La Piattaforma di sinistra voterà sì. Ma sarà un sì a proseguire le trattative e non al compromesso. Strette di mano, sorrisi e tutti in Parlamento.
Ore 23.51 . Inizia il dibattito. Konstantopoulou non è sulla poltrona di presidente. Strano. Parla Alexis Tsipras («non è l’accordo che volevamo, ma è il migliore possibile »). Le opposizioni fanno i loro distinguo ma promettono il sì. Il ministro della difesa Panos Kammenos – more solito – alza i toni: «L’intesa non mi piace ma non voglio la guerra civile e sangue nelle strade!». E’ un altro sì. Tutto sembra filare liscio. Tsipras rimane fino alle 2.45 ad ascoltare tutti. Poi esce all’improvviso. E tutti capiscono che c’è qualcosa che non quadra.
Sabato 11 luglio, ore 2.46. Konstantopoulou, pantaloni neri e camicia bianca, chiede di parlare. Tsipras resta fuori dall’aula. E lei sgancia la bomba destinata a far saltare gli equilibri di Syriza. «Il premier ha combattuto bene. Ma altra austerity non la voto. E per rispetto al governo, mi astengo». Gelo nell’emiciclo. I parlamentari – premier compreso, scurissimo in volto – rientrano e si vota. E’ chiaro da subito che i patti sono saltati. «Paron » (“Presente”, vale a dire astenuto) dice un primo uomo dell’ala radicale. La chiama continua. Arrivano altri due “Paron”. Si astiene il ministro del lavoro Dimitris Stratoulis. La ferita tra le due anime di Syriza si allarga. “Panagiotis Lafazanis” dice la scrutatrice. “Paron”. Tsipras resta di sasso.
Ore 3.15 . I numeri certificano la spaccatura. I deputati sciamano verso l’uscita. Il premier rimane seduto sulla sua poltrona. L’unico che si avvicina (aria di grandi intese, dice qualcuno) è Evangelos Meimarakis, reggente di Nea Demokratia. Si stringono la mano con un sorriso tirato. Il premier è infuriato per il tradimento. I suoi gli allungano un documento fresco di stampa. E’ una nota di 15 uomini di Lafazanis: «Abbiamo detto sì per salvare il governo. Ma non voteremo le riforme ». Tsipras incrocia Kammenos e gli fa i complimenti: i 13 di Anel hanno detto sì. Poi si chiude in ufficio. Vuole la testa dei ribelli. Tira fuori dal cassetto il regolamento di condotta fatto firmare a tutti all’atto della candidatura, che prevede la revoca del seggio in caso di indisciplina. Il fido Nikos Pappas lo calma.
Ore 5.00. Il premier convoca una riunione d’emergenza dei vertici del partito. Tsakalotos è assente, deve partire per Bruxelles. Agli altri, gelido, illustra la situazione. «La maggioranza non c’è più». Quattro ministri sono pronti a farsi da parte. Decolla l’idea di un rimpasto. Lo spettro è un governo di unità nazionale per firmare il compromesso con la Ue, la pietra tombale sul partito che si spaccherebbe in due. I “falchi” spingono per elezioni immediate. Syriza nei sondaggi sfiora il 40%. Tsipras non ha rivali veri né a destra né alla sua sinistra. E la legge gli consentirebbe (è passato meno di un anno dalle scorse elezioni) di decidere in autonomia le liste, riempiendole di fedelissimi. Ma il paese è in grado di reggere a un mese di campagna elettorale? Se ne riparlerà domani, dopo Bruxelles. E’ ora di andare a letto. Syriza, di sicuro, si risveglierà diversa.