L’assedio in Veneto ai 100 migranti nelle case senza luce

L’assedio in Veneto ai 100 migranti nelle case senza luce

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VA BENE che il dramma dei profughi non conosce soluzioni semplici e forse non ne conosce in assoluto. Ma quanto è accaduto ieri in un paesino del trevigiano sembra il riassunto di quello che non si dovrebbe mai fare. A partire, ovviamente, dal miserabile gesto, compiuto da alcuni indigeni, di impedire che a un gruppo di profughi venisse consegnato il cibo; e dal piccolo rogo di materassi che lo stesso drappello ha messo in atto,così da chiarire una volta per tutte che un piatto e un letto si negano, eccome, a chi si ritrova sradicato dalla propria vita e dipende in tutto e per tutto, e suo malgrado, dall’umore e dalla disponibilità dei luoghi che attraversa nella sua fuga senza fine. C’è un oggettivo sentore di pogrom, nel fumo nero di quei materassi, che non dipende dalle opinioni “buoniste” di chi disapprova .
MA DALLE pessime intenzioni di chi aveva il cerino in mano. Detto questo, che centouno profughi africani finiscano in un paesino del Veneto, stipati in un residence dichiarato inagibile (senza elettricità e senza gas), non è cosa che parli a favore del faticosissimo processo di accoglienza nel nostro Paese. È anche questo un dato oggettivo: dipenderà pure dalla semisordità europea, dagli egoismi nazionali, dal fatto che non tutti gli italiani sono lampedusani, dunque non tutti disposti a condividere un disagio e ad abbracciare una tragedia; sta di fatto che, per dirla brutalmente, i profughi non si sa bene dove metterli, e l’impressione è che li si destini, di volta in volta, dove capita, dove si spera che l’impatto sia minore. L’emergenza è emergenza, ma sarebbe meglio, allora, dichiararla ad altissima voce, dire con quali lacune e quali debolezze stiamo facendo i conti, sfatare la leggenda sciocca e disonesta dall’ospitalità fastosa concessa ai profughi e negata agli italiani, “loro in albergo, noi con lo sfratto”.
L’accoglienza che siamo in grado di dare è spesso malagevole e a volte miserabile. I profughi africani respinti dalla Francia sono rimasti per settimane sugli scogli italiani, come naufraghi perenni, affidati soprattutto alle cure di associazioni e privati cittadini. All’estro buono di chi si dava da fare, così come può capitare che entri in scena, all’opposto, l’estro cattivo di chi brucia i giacigli.
Bisognerebbe che su questi cocci e queste ferite (dei fuggiaschi prima di tutto; degli indigeni meno avvezzi all’accoglienza in seconda istanza, tanto per dare un minimo di gerarchia al dolore) ci fosse un poco di onestà in più e un poco di retorica in meno, da quella delle buone intenzioni manifestate a prescindere dagli scadenti mezzi, tanto per fare bella figura, a quella, a volte infame a volte ridicola, del “contagio culturale”, che ha avuto ieri il suo campione nel presidente del Veneto Zaia, la cui dichiarazione, si spera rilasciata in un momento di panico, è di sbalorditiva pochezza, e di travolgente comicità involontaria. Zaia lamenta che siano arrivate a Quinto «persone che non sanno niente del Veneto», rimostranza che, se accolta, porterebbe ad aprire le porte solamente al somalo che conosce Arlechìn Batocio, sordo da un orecio e orbo da un ocio , oppure al nigeriano che conosce la ricetta del baccalà alla vicentina.
L’approccio “razziale” alla questione è, tra tutti, quello più illogico; non solo il meno etico, ma il meno favorevole a uno sguardo lucido. Confondendo disinvoltamente profughi e immigrati, gente di passaggio e gente stanziale, Zaia paventa «l’africanizzazione del Veneto », come se la venetizzazione dell’Argentina o del Venezuela non fossero stati fenomeni di povertà e fame poi sbocciate, grazie all’emigrazione, in lavoro e fortuna; come se il suo Veneto non dovesse, ai “foresti”, molto del suo benessere; come se fosse ancora consentito un approccio etnico-tribale al gigantesco rimescolo di popoli e di culture che rischia di lambire, pensate che scandalo, perfino il Trevigiano.


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