La nuova strategia contro il Califfato

by redazione | 25 Luglio 2015 9:51

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U n attentato ambiguo. Come è sempre stata ambigua la Turchia nella lotta ai jihadisti, convinta di poterli usare per i suoi giochi in Siria finalizzati alla sconfitta di Assad e come bastione per arginare i curdi. Eppure la strage di Suruc, attribuita all’Isis, può cambiare il quadro. Con un’avvertenza. Ankara ogni volta che si muove non è mai completamente sincera.
Gli obblighi verso l’alleanza sono annacquati dai disegni del Sultano Erdogan, in concorrenza con altri attori regionali, dai sauditi al Qatar, ognuno con le sue carte nascoste .
La base
I turchi, finalmente, hanno concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Incirlik per le azioni anti Isis. Droni e caccia americani arriveranno più rapidamente sui target e resteranno maggior tempo in zona d’operazioni. Un aspetto non da poco che potrebbe assumere maggiore significato se Ankara userà il suo apparato possente per colpire i jihadisti del Califfo. Punto sul quale non tutti sono convinti.
L’apertura del fronte turco è destinata ad aumentare la cadenza delle incursioni della coalizione. La media recente è stata di 29-30 raid quotidiani così divisi: 46% in Kurdistan, 6% in Siria, il resto in Iraq. Gli attacchi hanno aperto vuoti importanti, si parla di oltre 10-16 mila militanti uccisi (a seconda delle fonti), molti gli «ufficiali» eliminati. Numeri che però non soddisfano i critici. Per molti il contenimento scelto da Obama — perché di questo si tratta — è appena sufficiente .
Cosa serve
Gli esperti ribadiscono: per fermare l’Isis servono forze speciali al fianco dei locali, una campagna aerea massiccia e soprattutto soldati che «illuminino» da terra i bersagli. Senza la loro presenza i bombardamenti hanno un impatto limitato, visto che spesso gli F18 sono tornati indietro senza aver sganciato gli ordigni per la difficoltà di individuare l’avversario. Quanto è avvenuto a Kobane, la città curda dove lo Stato Islamico ha patito la sua prima vera sconfitta, lo ha dimostrato. Grazie alla collaborazione tra insorti YPG e Comando centrale, con un flusso continuo di informazioni precise, la coalizione ha falciato i mujaheddin. Ora si ipotizza che i pochi ribelli siriani addestrati dalla Cia possano presto assumere il ruolo di «designatori».
Andando oltre la componente «aviazione», è necessario avere una forza agile, mobile, non dipendente da grandi basi. Il Pentagono deve uscire — indicano gli analisti — dalla tagliola logistica che porta ad avere tre elementi d’appoggio per ogni soldato che spara. Allora piccoli avamposti, magari con nuclei di elicotteri, unità scelte libere di agire. Non solo per distruggere, ma anche per creare insicurezza nel campo nemico. Al momento gli Stati Uniti hanno schierato circa 4 mila uomini in Iraq ai quali si aggiungono probabilmente i soldati segreti, quelle delle missioni inconfessabili. Costo dell’intervento: oltre 3 miliardi di dollari. Non poco .
Il nemico
Ad un anno dalla nascita del Califfato, lo Stato Islamico è diventato Stato. Regna su 82.940 chilometri quadrati, ha perso circa il 10% del territorio, tiene città importanti come Mosul e Ramadi in Iraq, Raqqa e Palmira in Siria. Ha dovuto battere in ritirata davanti ai curdi siriani dell’YPG a Kobane e Tal Abyad, non ha sfondato a nord di Aleppo. Nel frattempo ha proclamato 33 «wilaya» — province — dal Nord Africa all’Afghanistan: in alcune la presenza è reale (come nel Sinai), in altre ha radici poco profonde.
Molti pensavano che la cura brutale imposta da Al Baghdadi avrebbe provocato reazioni popolari. Invece l’Isis governa, gestisce servizi, garantisce — a suo modo — l’ordine. Le sue casse sono riempite dai traffici del petrolio, dalle tasse imposte e dalle estorsioni. La sua economia resiste. Qualsiasi forma di opposizione è repressa nel sangue.
La strategia è sempre quella del «rimanere ed espandersi» secondo tre cerchi: il primo è quello siro-iracheno, poi c’è l’area mediorientale, infine il resto. La sua propaganda si è rivelata molto efficace ed oggi la percezione è che sia in espansione. Sul piano militare può contare su quasi 60 mila militanti, divisi tra locali e i «muhajireen», i volontari venuti dall’estero.
Fondamentale il travaso di forze sull’asse Siria-Iraq così come le tattiche duttili: veicoli bomba con kamikaze per attaccare e difendersi; accerchiamento delle basi nemiche; infiltrazione affidata ai «inghemasiyoun», gli invisibili, i militanti responsabili di target killing e attentati dietro le linee, stragismo per indebolire, dispersione per sottrarsi ai raid.
Infine una struttura gerarchica con sottocapi e dirigenti locali per sopravvivere all’eventuale morte del leader. Tutti paiono rassegnati ad una lunga guerra .
Guido Olimpio
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