by redazione | 25 Luglio 2015 10:06
Dopo l’equiparazione tra nazismo e comunismo — avvenuta qualche mese fa — e le tante minacce (e qualche sprangata e aggressione ai dirigente del locale partito comunista ucraino) è arrivata l’ufficialità: il democratico governo ucraino, guidato dall’oligarca Poroshenko e appoggiato da Uione europea (Italia compresa), gli Stati uniti e la Nato (Italia compresa, ancora), ha bandito dalla vita politica ogni forma di organizzazione politica che abbia un qualsivoglia rimando alla storia del comunismo.
In particolare, come specificato dal ministro della giustizia di Kiev, Pavlo Petrenko, che ha siglato tre decreti per bandire i tre partiti di matrice comunista, sono da considerarsi illegali: il partito comunista d’Ucraina (la principale forza politica di estrema sinistra), il partito comunista rinnovato e il partito comunista dei lavoratori e dei contadini.
«In seguito all’approvazione delle leggi di decomunistizzazione — ha spiegato il ministro — è stata formata una commissione che ha passato un mese a controllare i tre partiti comunisti in Ucraina. In base alle conclusioni della commissione — ha proseguito Petrenko — ho firmato i tre decreti confermando che le attività, la denominazione, i simboli, gli statuti e i programmi dei partiti comunisti non rispondevano ai requisiti della parte 2 dell’articolo 3 della legge “Sulla condanna dei regimi totalitari comunista e nazionalsocialista in Ucraina e il divieto di propaganda dei loro simboli”».
Il partito comunista, alleato del partito delle Regioni del deposto presidente filorusso Viktor Yanukovich, alle parlamentari di tre anni fa aveva ottenuto il 13% dei voti, ma in quelle dello scorso anno aveva subito una sconfitta elettorale — a causa delle situazioni di difficoltà in cui si era trovato ad operare — raccogliendo meno del 4% dei suffragi (la soglia di sbarramento è del 5%). Il leader del partito comunista russo, Ghennadi Ziuganov, ha definito la decisione delle autorità ucraine «una rappresaglia contro gli oppositori politici». Il partito comunista ucraino — proprio ieri — ha annunciato invece che parteciperà alle elezioni locali fissate per il 25 ottobre nonostante il bando.
Lo ha specificato il leader dei comunisti ucraini, Petro Simonenko, sfidando così il ministro di grazia e giustizia di Kiev.
Qualsiasi sia il giudizio e la vicinanza che si può avere o meno con il partito comunista ucraino, la scelta del governo di Kiev, osannato come la risposta democratica all’autoritario Putin, non si può dire vada incontro alle più semplice regole democratiche. Escludere un partito di opposizione non pare possa rientrare nel «vademecum democratico» caro a Ue e Stati uniti, ma in Ucraina evidentemente certe attenzioni vengono meno.
Il paese continua il suo percorso verso una riproposizione di antichi schemi, con un oligarca, e la sua cricca, a guidare le decisioni economiche, basandosi anche sugli aiuti di Europa e Usa, preoccupati di quanto accade nell’est del paese.
E proprio ieri gli Stati uniti hanno concesso ai servizi di sicurezza ucraini aiuti per 200 milioni di dollari. Lo ha reso noto l’attivissimo — fin dalla Majdan, guarda il caso — ambasciatore Usa in Ucraina Geoffrey Pyatt precisando che si tratta di finanziamenti per esercitazioni, equipaggiamenti e materiale sanitario. C’è da chiedersi se questo materiale verrà usato dall’esercito in operazioni contro i separatisti o per cercare di tenere a freno le forze paramilitari neonaziste che anche recentemente hanno finito per scontrarsi con la polizia nazionale.
A Settore Destro e compagnia, Poroshenko ha dapprima concesso mano libera, fingendosi uomo di pace, salvo poi dover correre ai ripari, una volta accortosi che i battaglioni avevano raggiunto una forza numerica ed economia decisamente rilevante. E quanto sta accadendo a Kiev — una vera e propria prova di forza tra governo e paramilitari — non è una partita conclusa.
Analogamente non si sono fermati, nonostante i proclami dei «Normanni» e le esaltazioni di Minsk 2 i combattimenti nell’est del paese. Ieri secondo Kiev, due soldati sono stati uccisi in uno scontro a fuoco nelle regioni controllate dai separatisti.
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