ONDE evitare che, con la dichiarazione di morte dello Stato messo sotto tutela, si materializzi l’implosione dell’euro. Ovvero dell’Unione Europea.
Scelta non spontanea, che molto deve alle materne insistenze di Obama e di Hollande, oltre che alle resistenze di Draghi di fronte all’enormità di rischiare la vita dell’euro e i paradigmi finanziari globali pur di sbarazzarsi della piccola ma incorreggibile Grecia. Al parlamento di Atene il compito di tradurre in accettabile neogreco leggi scritte dagli eurocrati o direttamente dai burocrati nazionali tedeschi e francesi, che provvederanno a correggere eventuali refusi. Destino dei protettorati in maschera.
Per chi volesse ripercorrere la parabola della Grecia post-ottomana, il provvisorio esito della più aspra trattativa mai prodotta in quel laboratorio della negoziazione permanente che è l’Eurozona parrebbe l’ennesima replica di una storia infinita. La Grecia fallì la prima volta quando non era nata, nel pieno delle guerre di liberazione dal giogo turco. Anno 1826. Malgrado fosse affidata prima a un re bavarese poi a una dinastia danese — quanto di più “virtuoso” si possa immaginare stando alle correnti tassonomie nordeuropee — la giovane monarchia ellenica si indebitò fino al collo, costruendosi, fra bancarotte ripetute ed esosi “salvataggi”, rappresaglie e commissariamenti da parte delle potenze creditrici, una pessima fama finanziaria.
Quando il 2 gennaio 2001 la Grecia fu ammessa nell’Eurozona, gli ottimisti stimavano che battezzandola membro della famiglia degli eletti questa, finalmente responsabilizzata, avrebbe dismesso l’abitudine a vivere troppo al di sopra dei propri mezzi. I diplomatici tedeschi più illuminati giuravano sulla pedagogia dell’euro: la nuova moneta avrebbe trasformato lo spirito di un popolo. Le cicale sarebbero evolute in formiche.
Non è accaduto. Il dibattito sulla partizione delle colpe fra greci, tedeschi e altri europei impegnerà a lungo la storiografia. Le (ir)responsabilità elleniche sono palesi. Quelle altrui, prima coperte, sono emerse in questo atto della tragedia greca — altri, purtroppo, seguiranno. E si compendiano nel waterboarding cui Merkel e Schäuble, lei (apparentemente) con le buone lui (visibilmente) con le cattive, hanno sottoposto Tsipras. Il quale, pur di non dare ai tedeschi la soddisfazione di dimetterlo sui due piedi, ha accettato di esibirsi in acrobatiche giravolte che l’hanno ridotto a figura patetica più che tragica. Rinviando la resa dei conti, ma a un prezzo che difficilmente un altro leader europeo avrebbe accettato. Nella certezza che i sacrifici sono solo all’inizio, perché la stolida austerità dei contabili nordici, travolta la sovranità dello Stato greco, attacca ora la qualità della vita quando non la sopravvivenza degli elleni — oligarchi e armatori a parte.
In questa partita si è meglio profilata la geopolitica dell’Eurozona. Al centro, la Germania, dominante ma non egemone, con attorno un ambiguo corteo nord — e mitteleuropeo, nel quale si sono stavolta segnalati per vocazione satellitare slovacchi e baltici. Un paio di gradini sotto, la Francia, cui i tedeschi concedono, con rattenuta insofferenza, di apparire loro legittima associata. Stavolta Hollande ha però intuito che la volontà di Stati Uniti e Cina di scongiurare l’involuzione dell’eurocrisi in crisi mondiale avrebbe costretto la Germania a frenare all’ultima curva. In attesa, forse, di ripartire fra non molto per l’ultimo giro, quello che dovrebbe espellere l’ex Grecia dall’Eurozona.
Quanto all’Italia, ha evitato di esporsi. Primo, perché non avremmo potuto permettercelo, consci di percorrere un crinale sempre pericoloso. Secondo, perché quando in Europa il gioco si fa duro, noi non siamo abilitati a parteciparvi. O forse non ci sentiamo di farlo. Eppure in questa come in altre crisi — qualcuno ricorda l’Ucraina? — abbiamo visto Vilnius e Bratislava in prima linea. Paradossi di un’Europa impazzita.