Il Pkk risponde al pugno di ferro di Ankara: uccisi tre soldati

Il Pkk risponde al pugno di ferro di Ankara: uccisi tre soldati

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Bombe in Iraq, arre­sti di massa nel sud della Tur­chia: la guerra di Ankara al Pkk è senza quar­tiere. In un angolo resta lo Stato Isla­mico, “dimen­ti­cato” dai jet tur­chi. Dal 24 luglio sono morti nei raid nel nord dell’Iraq 190 com­bat­tenti kurdi, oltre 1.300 gli arre­stati nel sud della Tur­chia: di que­sti solo il 10% sono sospetti soste­ni­tori dell’Isis, il resto sono mem­bri o sim­pa­tiz­zanti del Par­tito Demo­cra­tico del Popolo (Hdp).

La rispo­sta del Pkk c’è ed è signi­fi­ca­tiva per­ché l’attacco di Ankara – che il segre­ta­rio gene­rale Onu, Ban Ki-moon, ha defi­nito di «legit­tima difesa» — è estre­ma­mente vio­lento. Ieri tre sol­dati tur­chi (un uffi­ciale e due con­trac­tor) sono stati uccisi nella pro­vin­cia sudo­rien­tale di Sir­nak. Secondo l’esercito, il movi­mento kurdo avrebbe attac­cato un con­vo­glio di truppe delle basi di Gor­mec e Seslice. Imme­dia­ta­mente dopo, sono stati dispie­gati com­mando e eli­cot­teri in tutta l’area: un com­bat­tente sarebbe stato ucciso nella rappresaglia.

Mer­co­ledì sera a cadere erano stati un poli­ziotto e un civile in una spa­ra­to­ria ad Amed, nel distretto di Çinar. Azioni che seguono alla dura repres­sione messa in campo dal pre­si­dente Erdo­gan, volta a pie­gare defi­ni­ti­va­mente il Pkk. Ma anche l’Hdp, sor­presa delle ele­zioni del 7 giu­gno che con il suo 13% di voti ha fran­tu­mato i sogni pre­si­den­ziali del neo-sultano Erdo­gan: ieri il pro­cu­ra­tore di Diyar­ba­kir ha aperto un’inchiesta sul lea­der del par­tito, Demir­tas, accu­san­dolo di aver isti­gato e armato la gente durante le pro­te­ste dello scorso anno a favore di Kobane. Un’accusa per cui Demir­tas rischia fino a 24 anni di prigione.

Sul campo mer­co­ledì notte la poli­zia turca ha ucciso il 17enne Hasan Nere. Nelle stesse ore altre 26 per­sone veni­vano arre­state tra Amed, Siirt e Bursa, men­tre pro­se­guono feroci i raid nel nord dell’Iraq, un’operazione che ha pro­vo­cato la rea­zione di Bagh­dad: il pre­mier al-Abadi ha par­lato di «vio­la­zione della sovra­nità del paese», nella totale indif­fe­renza della comu­nità inter­na­zio­nale che per bocca di Onu e Nato ha dato la sua bene­di­zione alla cam­pa­gna anti-kurda di Ankara.

L’obiettivo della Tur­chia è palese: le uni­che bombe che pio­vono sull’Isis sono quelle degli Stati uniti. Ankara, in Siria, ha già archi­viato il suo scopo: l’ok Usa ad una zona cusci­netto dove adde­strare i ribelli anti-Assad e tra­sfe­rire le cen­ti­naia di migliaia di pro­fu­ghi ripa­rati in Tur­chia. Ma soprat­tutto una “safe zone” che divida i can­toni di Rojava, fau­tori del modello di con­fe­de­ra­li­smo demo­cra­tico che ter­ro­rizza lo Stato-nazione turco.

Pro­ba­bil­mente Erdo­gan non sa di gio­care con il fuoco: la desta­bi­liz­za­zione che pro­voca in Tur­chia, dove punta a ele­zioni anti­ci­pate, si allarga alla regione. E a poco ser­vono le pezze appi­ci­cate sugli squarci della guerra civile siriana dall’alleato Usa: ieri il Fronte al-Nusra ha rapito 20 mili­ziani del gruppo anti-Assad “Divi­sion 30”, appena rien­trati dalla Tur­chia dove ave­vano preso parte all’addestramento statunitense-turco, piano da 500 milioni di dol­lari mai decollato.

Il gruppo era stato inviato nel vil­lag­gio di Mali­kiya, a nord di Aleppo, dove da mesi sono duris­simi gli scon­tri tra eser­cito gover­na­tivo e al-Nusra. Di ribelli mode­rati non ce n’è quasi l’ombra, nono­stante la città fosse in pas­sato con­trol­lata per metà dall’Esercito Libero. In mano ai qae­di­sti ora non ci sono solo i ribelli figliocci Usa, ma anche le armi appena con­se­gnate da Washington.

E men­tre il mondo guarda al Pkk, l’Isis avanza con­tro lo stesso nemico turco: ieri un attacco sui­cida nella città di Sarin, da poco ripresa dalle forze kurde, ha ucciso 18 persone.



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