I contratti di lavoro col Jobs Act

I contratti di lavoro col Jobs Act

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È entrato in vigore a fine giugno il D.Lgs. 81/2015, il quarto dei decreti applicativi che fanno parte del cosiddetto “Jobs Act”, la legge delega per la riforma del lavoro approvata dal Parlamento all’inizio di dicembre 2014.

Questo decreto, decisamente il più corposo varato finora all’interno della delega, modifica sia il codice civile che diverse leggi sul lavoro abrogando due interi decreti e numerosi altri articoli. Riscrive infatti la disciplina di molti contratti di lavoro – per esempio la collaborazione a progetto, la somministrazione, il lavoro a chiamata, il lavoro accessorio, l’apprendistato, il part-time – dando alcune indicazioni precise ma contemporaneamente lasciando aperte molte possibilità di deroga ai contratti collettivi nazionali.

Nel marzo scorso erano già stati approvati i decreti relativi al riordino completo degli ammortizzatori sociali e ai licenziamenti, mentre insieme a questo sono entrate in vigore nuove norme a tutela di maternità, paternità e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Il nuovo decreto chiarisce subito, all’art. 1, che “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune del rapporto di lavoro”: un’indicazione semplice ma importante, che definisce a quale tipo di lavoro vadano ricondotti i contratti più “leggeri” che non rispettano i limiti che la norma impone. Di seguito, le indicazioni relative ai nuovi contratti.

Collaborazioni organizzate dal committente
È il nome che il decreto utilizza per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (spesso noti come co.co.co.) nati nel 1997 con la cosiddetta legge Treu, poi modificati – in molti casi – in contratti a progetto (co.co.pro.) dal DLgs. 276/03.

Questi contratti erano – e restano – una categoria intermedia tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato, in cui c’è in teoria la piena autonomia operativa e non c’è vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente all’interno dell’organizzazione aziendale. Per evitare che questi contratti mascherino in realtà lavoro subordinato con minori costi e tutele, il decreto introduce le caratteristiche per individuare i rapporti di collaborazione da ritenere invece subordinati, a partire dall’1 gennaio 2016: prestazioni esclusivamente personali e continuative, organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

La seconda indicazione – tempi e luogo – è quella più chiara e stringente, ma il decreto introduce comunque quattro possibilità di deroga, per le quali non vale quanto sopra indicato:

– collaborazioni realizzate sulla base di accordi collettivi nazionali stipulati dai sindacati in ragione di particolari esigenze produttive e organizzative di uno specifico settore?

– collaborazioni relative a professioni intellettuali per la quali è necessaria l’iscrizione agli albi professionali (ingegneri, giornalisti, avvocati, ecc.);

– attività specifiche di componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e di partecipanti a collegi e commissioni;

– prestazioni per associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate a federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate e enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI (allenatori e istruttori, principalmente).

Col decreto vengono abrogate tutte le norme esistenti al riguardo, che sopravvivono solo per i contratti ancora in essere, tuttavia le nuove indicazioni valgono a partire dal 2016: per circa sei mesi questo tipo di contratti non potranno essere quindi stipulati.

Per superare inoltre l’uso improprio dei co.co.pro., il decreto permette ai datori di lavoro che assumeranno i loro collaboratori a tempo indeterminato partire dal 2016 – quindi senza i benefici contributivi dell’ultima finanziaria che valgono per il solo 2015 – la possibilità di una sanatoria completa degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali relativi a collaborazioni non genuine (anche a partita IVA). Il lavoratore interessato dovrà però accettare di sottoscrivere in sede di conciliazione e certificazione (presso Commissioni dei Consulenti del Lavoro, Direzioni Territoriali del Lavoro, Università) un apposito atto di rinuncia a qualsiasi pretesa sul precedente rapporto e non potrà essere licenziato per 12 mesi (salvo che per giusta causa o giustificato motivo soggettivo).

I nuovi aspetti relativi alle collaborazioni non valgono per la pubblica amministrazione, a cui è vietato comunque stipularne di nuove a partire dal 2017.

Disciplina delle mansioni
Viene riscritto l’articolo 2013 del codice civile, che riguarda il mutamento di mansioni per operai, impiegati, funzionari e dirigenti, in modo da consentire l’assegnazione a livelli inferiori – ma nella medesima categoria – in caso di modifiche degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore: questo demansionamento, per essere valido, va comunicato per iscritto e il lavoratore ha comunque diritto al mantenimento del livello retributivo, salvo particolari incrementi legati alla mansione precedentemente svolta.

La legge dice che si possono comunque stipulare accordi che prevedano una mansione di categoria inferiore, con riduzione corrispondente della retribuzione, se l’intesa avviene nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’impiego, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Una novità riguarda anche i lavoratori assegnati a mansioni di livello superiore: il termine oltre il quale l’assegnazione diventa definitiva – con relativo adeguamento contrattuale – passa da 3 a 6 mesi continuativi, salvo il caso in cui il lavoratore stesso sia contrario o stia semplicemente sostituendo un collega assente.

Lavoro part-time
Vengono modificate principalmente le regole relative al lavoro supplementare. Si tratta delle ore prestate in aggiunta a quelle indicate nel contratto, fino al limite dell’orario normale di lavoro (40 ore settimanali): si applica in particolare ai contratti part-time, per consentire una maggiore flessibilità della durata della prestazione lavorativa, adattandola alle esigenze aziendali.

I part-time non vengono più divisi in orizzontale (meno ore ogni giorno), verticale (periodi a tempo pieno intervallati da periodi di non lavoro) o misto, ma semplicemente con l’indicazione nel contratto “della durata della prestazione lavorativa e della collocazione dell’orario di svolgimento della stessa con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”.

La legge introduce la possibilità per il datore di lavoro di richiedere lavoro supplementare fino al 25 per cento dell’orario settimanale, con un costo maggiorato del 15 per cento, salvo diverse indicazioni dei contratti collettivi. Il lavoratore può rifiutare il lavoro supplementare senza rischiare il licenziamento, se ci sono “comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale”. Possono inoltre essere stipulate – se non presenti nei contratti nazionali – “clausole elastiche” per consentire al datore di lavoro di modificare – con almeno 2 giorni di preavviso – la collocazione temporale della prestazione di lavoro.

Non viene invece modificato il lavoro straordinario, ovvero quello oltre le 40 ore settimanali, in cui resta il limite a 250 ore annue e una maggiorazione stabilita dai contratti nazionali.

Viene ribadita la non discriminazione del lavoratore a tempo parziale, eliminata la possibilità nei contratti collettivi di prevedere retribuzioni più che proporzionali rispetto al lavoratore a tempo pieno e pari inquadramento e introdotto il diritto al part-time in caso di gravi patologie del lavoratore o dei familiari. Il lavoratore part-time ha inoltre precedenza per la trasformazione a tempo pieno del rapporto nel caso di nuove assunzioni.

Lavoro intermittente
Si tratta di un contratto con cui un lavoratore – che abbia meno di 25 o più di 55 anni – si mette a disposizione di un datore di lavoro, che può utilizzarne le prestazioni in modo discontinuo o intermittente, secondo quanto indicato dai contratti collettivi. Il decreto conferma sostanzialmente quanto già stabilito dal DLgs. 276/03: il contratto può richiedere massimo 400 giorni di lavoro in tre anni solari con lo stesso datore di lavoro – a parte i settori del turismo, pubblici esercizi e spettacolo. Come per tutti i contratti “minori”, non si può usare per sostituire lavoratori in sciopero o in aziende oggetto di licenziamenti collettivi e cassa integrazione o in cui il datore di lavoro non abbia effettuato la valutazione dei rischi secondo le leggi in materia di sicurezza sul lavoro. Dà inoltre diritto a un’indennità di disponibilità per i giorni a disposizione per un’eventuale chiamata ma non utilizzati, e dà diritto allo stesso trattamento economico del dipendente di pari livello.

Lavoro a tempo determinato
Parlando ora di lavoro dipendente classico, subordinato, il decreto stabilisce che il contratto di lavoro subordinato a termine non può avere durata superiore a tre anni, nemmeno per effetto di una successione di contratti a prescindere dal tempo di interruzione, con l’eccezione delle attività stagionali o di diverse disposizioni dei contratti collettivi. È possibile un quarto anno di contratto solo se stipulato presso la Direzione Territoriale del Lavoro.

Resta la possibilità massima di cinque proroghe purché non si superi il limite di 3 anni, mentre il contratto scaduto è utilizzabile fino a 30 giorni per contratti fino a 6 mesi (51 giorni per gli altri) con una maggiorazione nella retribuzione (20 per cento per i primi dieci giorni, 40 per cento per gli altri). Ogni impresa non può avere più del 20 per cento di lavoratori a tempo determinato, salvo diverse indicazioni dei contratti collettivi (per le imprese fino a 5 dipendenti è sempre ammesso averne uno a termine). Questo limite non vale per l’avvio di nuove attività, per le “start-up innovative”, per le attività stagionali o di spettacolo, per la sostituzione di lavoratori assenti, per lavoratori oltre i 55 anni, per enti di ricerca e culturali.

Solo in caso di violazione dei limiti quantitativi, a differenza degli altri casi, non è prevista la conversione in contratto a tempo indeterminato ma una sanzione economica per l’impresa pari al 20 per cento della retribuzione per un lavoratore a tempo determinato in eccesso, e al 50 per cento delle retribuzioni se sono più di uno.

Il trattamento economico e normativo è uguale a quello del dipendente a tempo indeterminato “comparabile”, e il lavoratore a termine che ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi nella stessa azienda ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate. Un ulteriore diritto di precedenza è previsto per le lavoratrici che abbiano fruito del congedo di maternità durante precedenti contratti.

Contratti di somministrazione
La somministrazione di manodopera è quella che permette a un’azienda – l’utilizzatore – di rivolgersi a un’altra – il somministratore: un’agenzia specializzata in questo e non nel produrre qualcosa – per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma dipendente del somministratore.

Se c’è una somministrazione abbiamo due contratti diversi: un contratto di somministrazione, stipulato tra l’utilizzatore e il somministratore, di natura commerciale; e un contratto di lavoro subordinato stipulato tra il somministratore e il lavoratore. Entrambi possono essere a tempo determinato o indeterminato. Il decreto modifica i limiti quantitativi, oggi pari al 20 per cento del personale assunto a tempo indeterminato dall’utilizzatore, ma senza dover specificare cause particolari per il ricorso alla somministrazione; semplifica i contenuti della forma scritta del contratto e permette all’utilizzatore di adempiere direttamente a tutti gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, mentre prima alcuni erano per forza in carico al somministratore. Non pone limiti, se non quello del 20 per cento sopra indicato, al cosiddetto staff-leasing, cioè l’utilizzo di intere squadre di lavoratori somministrati.

Apprendistato
Resta invariato l’apprendistato più comune, quello che la norma chiama “professionalizzante”, cioè volto a imparare una professione, che si può svolgere tra i 18 e i 29 anni. Col nuovo codice dei contratti vengono invece fortemente modificate le due tipologie di apprendistato che finora sono piaciute meno a lavoratori e imprese, cioè l’apprendistato per la qualifica e per il diploma – che ora assume la nuova denominazione di “Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore” – e l’apprendistato di alta formazione e ricerca (valido tra i 18 e i 29 anni per chi ha già un diploma superiore, in collaborazione con enti di ricerca o di formazione specialistica). Insieme queste due formule compongono un “sistema duale” per il conseguimento dei titoli, rispettivamente, del livello secondario di istruzione e formazione e del livello terziario, che potrà così avvenire anche attraverso l’apprendimento presso l’impresa. In Italia infatti vige l’obbligo di istruzione fino a 16 anni e l’obbligo formativo fino a 18, e la nuova normativa permette agli studenti degli istituti scolastici statali di accedere all’apprendistato per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore. Il contratto è fruibile dai 15 ai 25 anni di età per 36 mesi (estendibili a 48 in alcuni casi).

Lavoro accessorio
Si intendono i piccoli lavori occasionali, svolti direttamente – cioè non all’interno di appalti – nei confronti di imprese, pubbliche amministrazioni professionisti o famiglie (come le ripetizioni scolastiche, le pulizie domestiche). Viene elevato l’importo annuale per lavoratore fino a 7.000 euro, con un massimo di 2.000 euro per committente. Il pagamento avviene – come prima – tramite buoni-lavoro (voucher) acquistati per via telematica e tracciabili, con una contribuzione del 20 per cento e una tassazione del 5 (il committente compra un buono da 100 euro, lo dà al lavoratore che ne incassa 75).

Associazione in partecipazione
Il decreto modifica l’articolo 2549 del codice civile: sparisce la figura dell’”associato in partecipazione” come persona fisica che lavora direttamente nell’impresa: erano sorti negli ultimi anni contratti di questo tipo che mascheravano, con una fattispecie tipica di chi partecipa agli utili di un’impresa dando un apporto di qualche tipo, dei normali contratti di subordinazione, con una conseguente elusione. Resta la possibilità di associazione tra imprese.

Abbiamo finito?
No: sono in discussione altri quattro decreti delegati, che trattano di razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale, riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive, razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità.



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