ROMA. Nemmeno Angelo Del Boca riesce a distinguere bene quello che sta succedendo in Libia. Per il massimo storico delle imprese coloniali italiane «la situazione è molto complicata, nonostante il lavoro indefesso dell’inviato Onu, Beniamino Leon…».
Sta facendo dell’ironia, professore?
«Sì».
Non sembra avere molte speranze sulle possibilità di far fare la pace alle fazioni in lotta. Come mai?
«Si sapeva dall’inizio che sarebbe stato difficile mettere d’accordo due entità così diverse. Se Tobruk alla fine sembra disposta a cedere, Tripoli non cederà mai. Ma anche se arrivassero ad un accordo fra loro, servirebbe a poco. Ci sono moltissime altre fazioni armate, i gruppi sono centinaia. E ognuno vuole la sua fetta di potere».
Ritiene credibili i proclami di affiliazione di alcuni gruppi al sedicente Stato Islamico e l’idea che Al Baghdadi voglia impadronirsi del petrolio libico?
«Per ora mi sembra che sia ancora un gioco di gruppuscoli che cercano il loro spazio».
Come faceva Gheddafi a tenere tutti sotto controllo?
«Era un uomo di grande intelligenza, capace di governare trecento tribù. Teneva tutto in mano, conosceva tutti i personaggi importanti. È caduto solo di fronte alla potenza militare della Francia e dell’Inghilterra, e purtroppo anche dell’Italia».
L’Italia aveva firmato un accordo di amicizia con la Jamahiriya e poi invece ha partecipato alle missioni militari contro Gheddafi. Che ne pensa?
«È stata una vergogna. L’ho scritto chiaramente nel mio ultimo libro su Gheddafi, credo che il presidente Napolitano abbia violato la Costituzione imponendo di fatto la partecipazione alle operazioni contro Tripoli».
In quei giorni molti credevano che l’Italia dovesse in qualche modo stare a fianco dei partner europei…
«Credo che Napolitano sapesse molto bene quello che faceva. Bastava guardare alla Germania della Merkel per avere il riferimento di un Paese che non partecipava alla guerra».
Torniamo a questi giorni. C’è chi ipotizza che il rapimento di quattro italiani possa essere un avvertimento al nostro Paese, che ha dato disponibilità a guidare una missione militare in Libia. Come valuta quest’idea?
«Ma no, è una sciocchezza. In Libia i rapimenti sono cosa di tutti i giorni. Succede ben altro che il sequestro di lavoratori occidentali con il caos del Paese».
Lei è sempre stato critico sull’idea di una nuova operazione libica sotto il tricolore. E’ sempre della stessa opinione?
«Guardi, la situazione è così caotica che diventa ridicolo proporre una missione. Il ministro ha detto: siamo pronti, mandiamo cinquemila soldati. Ma per fare cosa? Con quale progetto, a fianco di chi? Sarebbe un grande errore, anche se ce lo chiedesse l’Onu».
Ma insomma, professore, come si viene fuori dal caos libico?
«Non si viene fuori. Non ci sono personalità in grado di trovare la via d’uscita. E il generale Haftar, che cerca l’appoggio egiziano, non è Gheddafi».