TARANTO . Lo striscione lo hanno riattaccato qualche giorno fa, sul solito cavalcavia prima di entrare in città. Questa volta non c’è più scritto «Riva boia». Ma «Stato boia» che non è tanto uno slogan, ma una sintesi, magari un po’ azzardata ma abbastanza fedele, di quello che ha scritto in un giudice in un provvedimento qualche ora fa. E’ tutta qui, in questa sostituzione di parole, la vecchia nuova storia di Taranto e del suo gigante di acciaio. Che in questi cinque anni di battaglie giudiziarie è stato piegato ma mai spezzato dalla magistratura. E’ riuscito a resistere alla sua gente che, dopo anni di silenzi, si è rivoltata contro morti e malattie. Ma che ora, invece, rischia di cedere definitivamente al mercato che pare non poter sostenere più la pressione dell’ambiente.
Da Taranto infatti non se n’è (ancora) andato l’acciaio. Ma stanno andando via i clienti. L’ennesima chiusura e riapertura della fabbrica grazie a un decreto di urgenza da parte del Governo – l’ottavo in cinque anni – ha avuto infatti l’immediato effetto di creare ancora più disagio. La crescita di commesse attesa non è arrivata, dicono i sindacati. Anche perché per il momento Ilva lavora soltanto con un Altoforno (a giorni dovrebbe ripartire anche il secondo, fermo da più di un anno per motivi ambientali) e con difficoltà arrivano nuovi clienti. Anzi. Fiat dopo lo sciopero degli autotrasportatori è andata via. Storici clienti non si sentono più garantiti dai tempi di consegna e, in un momento come questo di crisi, alcuni giovani manager hanno preferito rimanere dove sono, anche in realtà più piccole, piuttosto che provare una nuova impresa con Ilva.
A creare il clima di grande incertezza ci sono due punti su tutti. Ed entrambi riguardano le aule di giustizia. La prima è una questione di liquidità: nelle casse dell’azienda non sono ancora arrivati il miliardo e 200 milioni di euro sequestrati ai Riva in Svizzera e messi a disposizione dei commissari dal tribunale di Milano. Li ha bloccati la famiglia con un ricorso di urgenza. Quel denaro è fondamentale per chiudere alcune opere di ambientalizzazione. Entro il 31 luglio infatti devono essere terminate l’80 per cento delle prescrizioni ambientali previste dalla legge. E, a credere alla relazione del direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, ci vorrebbe un miracolo (sempre possibile) per fare certificare ai tecnici del ministero il raggiungimento dell’obiettivo.
Esiste poi un secondo problema che riguarda, più in generale, il rapporto con la magistratura. Appena insediati i tre commissari- Piero Gnudi, Enrico Laghi, Corrado Carrubba – hanno tenuto a fare sapere una cosa: «Noi e magistrati siamo parte della stessa squadra: lo Stato. Lavoriamo per lo stesso obiettivo ». Per usare un’altra metafora calcistica, evidentemente però c’è stato qualche problema di amalgama nella squadra. Perché i giudici hanno prima rigettato la richiesta di patteggiamento nel processo Ambiente svenduto (il 20 le decisioni del gup); poi hanno disposto il sequestro dell’Altoforno dopo l’incidente mortale all’operaio Alessandro Morricella, rigettando le successive richieste di dissequestro. E infine martedì il gip Martino Rosati ha sollevato eccezione di incostituzionalità sul decreto del Governo, l’ottavo “ad Ilvam” come li chiamano da queste parti, che disponeva il dissequestro dell’impianto. Il giudice, assai stimato nell’ambiente, sostiene che il decreto violi l’articolo 2 della Costituzione, perché tocca i diritti inviolabili dell’uomo. «L’esercizio dell’attività d’impresa » scrive Rosati, non può essere garantito «pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l’incolumità umana senza pretendere dall’azienda l’adeguamento degli stessi alle più avanzate tecnologie di sicurezza». In sostanza, dice il giudice, che il Governo abbia approvato una sorta di moratoria sulla sicurezza sul lavoro. Nello stesso provvedimento il gip ricorda che la Costituzione tutela sì il diritto al lavoro ma «impone, quale presupposto essenziale e inderogabile, che il lavoratore operi in condizioni di massima sicurezza ». Ma, come raccontano anche i cavalcavia, a Taranto quella «massima sicurezza» sul lavoro non sempre è rispettata.