Atene, «liberalizzazioni» all’italiana
C’è un’innovazione linguistica. Avrà fortuna perché viene da Bruxelles: è dunque autorevole.
Adesso si deve dire «liberalizzazioni», e non più «privatizzazioni» come s’usava finora. Dal punto di vista della psicologia di massa, che è quello che conta, la trovata è scelta bene. Infatti evoca l’idea della «libertà», che piace, anziché un banale passaggio di mano di carattere economico, che avviene invece nella realtà.
Se l’Europa aggrava le situazioni che dovrebbe risolvere — ora con la Grecia -, dal punto di vista della comunicazione è un portento. Fra le tante, dure e assai umilianti condizioni imposte oggi alla Grecia, c’è la «liberalizzazione» dei settori portanti dell’economia, finora controllati dallo stato. Il rapporto fra questo pesantissimo onere imposto e il «salvataggio» del paese, è difficile da argomentare, ma intanto si va avanti per la strada segnata a Bruxelles.
In termini economici dovrebbe trattarsi di beni di valore assai grande — si tratta del patrimonio di uno stato sovrano, anche se nel quadro dell’economia europea non è di dimensioni molto grandi -, che si vuole dare in garanzia per finanziamenti che invece non vengono ancora esattamente definiti. Per ora, dunque, c’è solo la certezza dei pegni imposti. Normalmente le garanzie si chiedono senza intaccare la proprietà dei beni, che verranno forzatamente tolti al debitore solo in caso d’inadempienza. Il passaggio del bene dal debitore al creditore si potrebbe giustificare infatti con l’inadempienza, ma non come misura preventiva a prescindere dal pagamento del dovuto.
Per la Grecia non sarà così. L’imposizione di una simile condizione viene fatta insomma indipendentemente dall’effettivo comportamento del debitore rispetto al suo debito. Questa condizione implica l’imposizione di un sistema economico nuovo per la Grecia: questa innovazione si fonda sulla privatizzazione coatta dei settori più importanti dall’economia greca. Protagonisti principali di questa trovata sono il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble e la cancelliera federale Angela Merkel.
Questo meccanismo presenta un punto di principio particolarmente importante. L’Europa, nella sua gestione di fatto non elettiva ma delegata a super-funzionari designati dai governi, si rende protagonista di una radicale trasformazione del sistema comunitario. Al posto di una struttura economica di stampo liberale, che consentiva la convivenza di iniziativa privata e iniziativa economica controllata dallo stato (sistema che peraltro rimane in vigore in Germania), per la Grecia si stabilisce che soltanto la prima espressione — quella di carattere privatistico — debba avere il ruolo di protagonista nei gangli più delicati.
Questo punto d’arrivo non era imprevedibile. Qualcosa di molto simile era stata sperimentata per l’Italia, dove l’economia pubblica era considerata un fenomeno da «normalizzare». Fu organizzato un convegno (2 giugno 1992), al quale venne mandato il direttore generale del tesoro, Mario Draghi, il quale illustrò alla finanza internazionale i beni del patrimonio industriale, finanziario e bancario da offrire a investitori di tutto il mondo. Le privatizzazioni vere e proprie vennero realizzate fra il 1992 e il 1999 (governi Prodi, Amato, Ciampi e Dini). La cessione della quota di maggioranza dell’Eni (1998) fu voluta dal governo Prodi.
Il primo esperimento — perfettamente riuscito, dal punto di vista di chi aveva suggerito il piano a da quello degli acquirenti — fu dunque realizzato in Italia, nel giro di pochi anni con la cessione di quasi l’intero patrimonio mobiliare del paese, aprendo la strada anche ai passi successivi (non ancora interamente compiuti) delle ferrovie, delle poste e delle linee aeree.
In Italia l’operazione riuscì nelle sue linee portanti, ma è rimasta ancora incompiuta nell’ultima parte. Non deve sorprendere riconoscere in questi programmi, gli stessi nomi. Chi, nella pratica realizzazione del progetto volle alienare la parte di capitale che lasciava ancora nelle mani dello stato italiano la maggioranza dell’Eni — il motore dello sviluppo italiano del dopoguerra — si chiamava Romano Prodi.
Per l’Italia, quegli oneri potevano anche considerarsi la proiezione dell’onda lunga derivante dalla sconfitta bellica: si voleva la trasformazione di un sistema economico, in cui il settore pubblico era ritenuto troppo potente. Dopo la seconda guerra mondiale operazioni analoghe furono imposte a tutti i paesi sconfitti, fra i quali fu naturalmente anche la Germania.
Con la Grecia, oggi la situazione è diversa, e la motivazione per l’imposizione delle privatizzazioni sembra prevalentemente ideologica, con una funzione di monito estesa a tutto il continente. Ad Atene c’è un governo di sinistra che ha vinto le elezioni, c’è un parlamento con una sinistra — con una parte che si dichiara «comunista» — molto forte. Viene considerata un’anomalia grave nel sistema europeo. Si aggiunge un «eccesso» di democrazia, che alla burocrazia dell’Europa non piace. Al governo ci sono leader che hanno vinto democraticamente le elezioni, e sono per ciò espressione diretta dell’elettorato, ma questo non basta. Perché il sistema di potere dell’Ue è basato su una pattuglia installata al potere non in virtù di voto popolare, ma per designazione dei governi e dei meccanismi di potere interni al sistema Ue, che non è democratico. Ma non gradisce che questo venga notato.
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