Anche Deutsche Bank è una cassaforte virtuale
Esposta ben più della Grecia e almeno altrettanto abile a mascherare i conti.
Al contrario di Atene però, Deutsche Bank non sembra un problema politico né una priorità finanziaria per Berlino, dove si squadernano i bilanci ma solo degli altri.
Basta far finta di dimenticare che la «cassaforte» tedesca custodisce il più elevato numero di derivati al mondo (55.605 miliardi di euro, cifra che equivale a venti volte il Pil della Germania), paga sanzioni per operazioni non proprio da manuale e, infine, risulta tra i maggiori finanziatori perfino del Bundestag.
Funzionerebbe, se solo i radar più potenti la smettessero di seguire tutte, ma proprio tutte, le «scie» della più importante banca del Paese.
Le noie per l’istituto di Francoforte non sono certo finite con la maxi-sanzione di aprile: 2,5 miliardi di euro da pagare alle autorità di controllo di Stati Uniti e Gran Bretagna per la manipolazione dell’indice bancario Libor. Una ferita ancora aperta che comporta il dimezzamento degli utili previsti per il 2015 e si aggiunge ai 720 milioni già «girati» all’Antitrust europeo tre anni fa.
In più, c’è l’indagine ancora in corso sul riciclaggio in Russia di circa 5,3 miliardi di euro: secondo il Dipartimento servizi finanziari degli Usa sarebbero transitati per la banca tedesca, sotto forma di rubli, tra il 2011 e il 2015.
Non sono gli unici casi che attirano l’attenzione sull’istituto guidato da Anshu Jain e Jürgen Fitschen, amministratori delegati del gruppo tra i maggiori movimentatori di valuta a livello globale.
A novembre dell’anno scorso il notiziario Tagesschau ipotizzava che Deutsche Bank avesse «dirottato» attraverso il Lussemburgo buona parte dei profitti realizzati in Germania, Italia, Francia e Polonia che sarebbero finiti nei Paesi off shore eludendo la tassazione europea.
Solo uno dei tanti inconvenienti per la banca con sede nelle Twin Towers di Francoforte che vanta come maggiore azionista l’onnipresente fondo Black Rock. Si appaia ai 55 milioni di dollari già impiegati per risolvere il contenzioso con gli americani della Security and exchange commission (Sec) che hanno accusato Deutsche Bank di avere «travisato» il valore dei derivati all’apice della crisi finanziaria rendendo «dichiarazioni inesatte sulla loro reale situazione di rischio».
Per la Sec, in buona sostanza, di veramente «coperto» c’era giusto il 9% dei 98 miliardi di dollari investiti dall’istituto nei più incontrollabili vettori finanziari. Strumenti decisamente più pericolosi del default greco in cui il sistema bancario tedesco rischia di bruciare «appena» 4,6 miliardi di euro e dove Deutsche Bank (adesso) è esposta soltanto per 300 milioni, cioè 100 in meno di Commerzbank, come certifica il Bdb, l’associazione delle banche tedesche.
Inezie se paragonate alla «bomba a orologeria» dei derivati già nella pancia del gigante del credito oppure ai danni, sempre poco notiziati dai media, nello sviluppo delle economie «emergenti» con i finanziamenti alle imprese più distruttive del pianeta.
Dalle aziende che minacciano l’ecosistema delle tigri in India, agli estrattori selvaggi di olio di palma in Malesia che contribuiscono a defoliare ciò che rimane della foresta pluviale (come denuncia l’ong Rainforest Rescue) fino al supporto dei fondi d’investimento agricoli che macinano utili grazie al land-grabbing.
Operazioni tossiche soprattutto per l’ambiente tanto che due anni fa Deutsche Bank ha «vinto» il «Black Planet Award», bollino nero che la Fondazione Ethecon incolla a chi finanzia la distruzione della Terra.
Sponsorizzazioni diversamente brillanti rispetto alle decine di milioni di euro investiti in sport, cultura e terzo settore: dalla Filarmonica di Berlino ai Giochi olimpici, passando per il golf e il basket e, in Italia, per San Patrignano e i ciellini della Fondazione Banco alimentare di cui Deutsche Bank è il «costruttore» del social-bond.
Asset sussidiari al core business, più che strategici per l’istituto tedesco che nel 2014 ha incassato 1.691 miliardi di euro di profitti, impiegato 98 mila dipendenti in oltre 70 Stati e ormai rappresenta il 21% dell’intero mercato mondiale del credito.
Fondamentali, almeno quanto i versamenti nelle casse dei partiti tedeschi: dal 2000 al 2009 Deutsche Bank ha «donato» più di 4,4 milioni di euro al Bundestag escludendo dalla lista dei benefattori solo i comunisti della Linke.
Il 60% degli stanziamenti è andato nelle casse della Cdu, il 25% ai liberali dell’Fdp, il resto a Spd e Verdi.
Forse è per questo che nella Repubblica federale si fatica a parlarne.
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