All’assalto dell’Eurotunnel
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L’assalto scatta a gruppi di 200-300. Nelle scorse settimane, approfittando dello sciopero dei traghettatori che ha aggiunto caos al caos, l’obiettivo erano i camion fermi al porto prima dell’imbarco. Nelle ultime notti, però, i migranti si sono spostati in massa verso il terminal degli shuttle Eurotunnel, a Coquelles. Scavalcano la barriera o s’infilano nei buchi della rete, lungo un perimetro di 23 chilometri, e poi tentano di issarsi sulle navette che trasportano gli automezzi a Dover, in Inghilterra, in appena 35 minuti. Spesso sono già in movimento, a 30-50 km all’ora, e ogni notte qualcuno si fa male. Ieri mattina all’alba le autorità hanno calcolato 2.200 tentativi di incursione. E un morto, un ragazzo sudanese di 20 anni rimasto schiacciato da un camion, la nona vittima dall’inizio di giugno, mentre un egiziano è rimasto fulminato a Parigi tentando di salire su un Eurostar.
Almeno 148 migranti, martedì notte, sono riusciti a «passare», ormai sudditi clandestini del Regno Unito. L’allarme a Londra è alto. Anche se i numeri per ora sono contenuti, l’onda lunga in arrivo dal sud dell’Europa potrebbe diventare presto una marea. Il governo britannico lo sa, e ieri ha annunciato altri 10 milioni di euro, oltre ai 4,7 già stanziati, per rafforzare le misure di sicurezza e venire incontro alle richieste del consorzio Eurotunnel, che sostiene di aver già intercettato dall’inizio dell’anno 37 mila migranti e ha chiesto a Francia e Gran Bretagna un indennizzo di 9,7 milioni di euro per compensare le perdite.
«Non ci fermeranno — assicura il pachistano Sohail, partito tre anni fa da Peshawar —. Se costruiscono un’altra barriera, tenteremo di salire sui treni e sui camion da un’altra parte, in qualche stazione più lontana dal confine. Non voglio sprecare il mio tempo qui. A Birmingham e a Londra ho amici e parenti che mi aspettano, ci sono comunità che parlano la mia lingua e posso cucinare in qualsiasi ristorante, come il mio amico afghano, qui accanto, che ha imparato a fare la pizza quando ci siamo fermati a Bari, per un po’».
Lo incontriamo alla «Giungla», così la chiamano i locali, un accampamento di tende alla periferia di Calais, tra capannoni industriali e campi incolti. È la penultima tappa di un viaggio che sembra senza fine per questi migranti: 3-5.000 persone, impossibile fare il conto al «Centre d’Accueil et d’Aide aux personnes migrantes Jules Ferry», che un tempo era un’area giochi per bambini. Quasi tutti i migranti sono passati dall’Italia, e da Milano: «Bellissima» dicono in coro, «dormivo alla stazione, ma qualcuno portava sempre da mangiare», sorride un eritreo. La nostra penisola era, però, solo una tappa di un viaggio più ambizioso, che è costato tra i 3.000 e i 10.000 euro, senza garanzia sulla data d’arrivo. Per il momento sono qui, accampati lungo la stradina di campagna sotto dei «pezzi di plastica» — così li chiama l’eritrea Helen, che non si arrende alla miseria — tutt’attorno al «campo diurno» organizzato dal Comune di questa cittadina di 80.000 abitanti, che da 15 anni è terra di passaggio. Oltre il cancello, off limits per i giornalisti, s’intravedono container di metallo, simili a quelli di tutti i campi profughi del mondo, all’esterno dei quali si fa la fila per una doccia e un pasto, un unico pasto al giorno. C’è la lavanderia, il pronto soccorso e un punto per ricaricare i telefonini, che tutti usano per «chiamare casa», che spesso vuol dire Londra. Ma alle 19 il cancello chiude, fino alle 12 del giorno dopo. Allora gli uomini si radunano sotto una tenda di fortuna, con una scritta a pennarello, «mosque» mentre le poche donne corrono nelle abitazioni di fortuna.
«Al mattino mi sveglio e ho fame. E qui è difficile, pericoloso per noi donne. Dentro ne ospitano un centinaio, perlopiù mamme con bambini, per noi non c’è posto», spiega Gabriela. Vuole raggiungere il marito, che «a Londra ha un lavoro». Ibrahim ci proverà ancora stanotte, «è da due mesi che tento di passare, sono stanco. Sennò torno in Italia, almeno lì mangiavo e la gente mi sorrideva». Ha 20 anni ed è partito tre anni fa dal Darfur, in Sudan. Ha attraversato il deserto, è rimasto bloccato tre anni in Libia, tra Bengasi e Tripoli, a «sudare» i 3.000 euro per il passaggio in barca. «In mare è stato terribile, ma in soli sei giorni da Lampedusa sono arrivato a Milano, e da lì a Ventimiglia e poi sempre più su. E ora voglio arrivare a Londra perché lì riesci a lavorare anche se non hai i documenti. E perché sennò non avrebbe avuto senso tutto questo». Buona fortuna, «Insciallah», risponde con un grande sorriso.
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