“Accogliamoli ma non a casa mia” L’Italia a due facce con gli immigrati

“Accogliamoli ma non a casa mia” L’Italia a due facce con gli immigrati

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VIVIAMO tempi inquieti. Sul crinale tra ferocia e paura. D’altronde, la paura incendia i sentimenti e i risentimenti. Così assistiamo, senza nemmeno stupirci, ai blocchi, alle manifestazioni, agli assalti che accompagnano i trasferimenti dei profughi in campi, scuole e caserme vuote. A Roma o a Treviso, non importa. Iniziative organizzate da residenti. Fiancheggiati da “militanti della paura”, esterni alla comunità. Eppure l’Italia e, soprattutto, il Veneto sono da oltre un decennio terra di immigrazione. Dopo essere stati, per secoli, Paese di emigranti. Diretti oltre oceano, dove sono rimasti. A milioni.
Treviso, in particolare, è divenuta, negli ultimi vent’anni, tra le province con il maggior tasso di immigrati, come molte altre aree padane, o meglio, pedemontane. Costellate di piccole e piccolissime imprese artigiane. Dove la manodopera non è certo italiana. Visto che i nostri giovani, i nostri figli, se ne vanno in massa, dall’Italia. Ma non per lavorare in fabbrica… Le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione, comunque, si sono allargate in fretta, negli ultimi mesi. Soprattutto in tema di sicurezza: dal 33% al 42% della popolazione, da gennaio ad oggi (Sondaggio Demos, giugno 2015). Mentre risulta stabile – e ampia – la sensazione che gli immigrati costituiscano una minaccia all’occupazione: intorno al 34-35%. L’impatto dei flussi migratori sul piano della cultura, dell’identità e della religione, a sua volta, coinvolge circa un terzo degli italiani. Non si tratta di un fenomeno nuovo. L’immigrazione è sempre stata motivo di tensione. Da quando abbiamo iniziato a rilevare gli orientamenti dei cittadini al proposito. Cioè, dalla fine degli anni Novanta. Tuttavia, il livello di inquietudine più elevato si registra fra il 2006 e il 2008. In particolare nel 2007, quando oltre il 50% degli italiani definisce l’immigrazione un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Mentre il 37% la percepisce come una minaccia all’occupazione. Il timing non è casuale. In quegli anni – come al passaggio del 2000 – si era in piena campagna elettorale. E l’immigrazione ne divenne una bandiera. Agitata dalla Lega. Ma anche da Forza Italia, An, Pdl. In generale, dalla Destra. E amplificata dai media. Oggi la storia si ripete, perché siamo in clima di campagna elettorale permanente. E perché le tensioni e i conflitti in Medio- Oriente, nel Nord Africa – e nell’Africa in generale – hanno moltiplicato gli sbarchi. Alimentando i flussi che attraversano l’Italia. D’altra parte, non bisogna pensare che l’immigrazione preoccupi solo o in particolare gli italiani. Dal sondaggio condotto lo scorso gennaio dall’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis) emerge, infatti, come l’immigrazione sia ritenuta un problema prioritario soprattutto e anzitutto in Germania e in Gran Bretagna. Molto meno in Francia, Italia, Spagna e Polonia. Dove prevalgono, invece, le preoccupazioni relative all’economia e alla disoccupazione. Così, l’accoglienza smette di essere considerata una virtù proprio nelle destinazioni privilegiate da profughi e migranti. Dove maggiori sono le possibilità di lavoro. Dove vi sono già altre comunità di migranti, insediate da tempo.
Per questo non debbono sorprendere le proteste suscitate in Italia. Riflettono il disagio nei confronti dello “straniero”. L’inquietudine prodotta dalla globalizzazione, di cui l’immigrazione è un riflesso. Tra i più visibili e significativi: perché impatta sul nostro mondo, sulla nostra vita quotidiana. Così, se Lampedusa è divenuta la porta dei disperati in fuga verso l’Italia, l’Italia, tutta, è divenuta la Lampedusa d’Europa. “Recintata” in alcuni confini sensibili. Come quelli francesi. Controllati, a loro volta, dalla Germania e, ancor più, dalla Gran Bretagna.
Per questo motivo sorprende un poco l’orientamento degli italiani, che, in maggioranza, condannano le Regioni e i Comuni che rifiutano di accogliere una quota di profughi. E, in misura ancor più ampia, deprecano i Paesi europei che chiudono le frontie- re. Indisponibili, anch’essi, ad accettare la loro parte di immigrati.
Anche se, a loro volta, reagiscono, quando arrivano e si insediano vicino alla propria casa. Ma questo atteggiamento, in fondo, conferma la (nostra) sensibilità verso le ragioni – sociali e umanitarie – dell’immigrazione. La nostra attenzione verso i diritti degli immigrati e, ancor più, dei loro figli, ai quali gran parte degli italiani concederebbe volentieri la cittadinanza. Mentre risulta assai minore la disponibilità degli italiani ad accettarne i costi. Quando ci riguardano direttamente. Anche per questo gli immigrati condizionano le nostre percezioni e i nostri sentimenti. E costituiscono un argomento sensibile, sul piano politico. Utilizzato, in particolare, da alcuni partiti e leader. Soprattutto della Destra. Popolare e populista. In Italia, i piani di accoglienza del governo, infatti, incontrano l’opposizione soprattutto (ma non solo) di sindaci e governatori leghisti e di centrodestra (come Maroni e Zaia). E, sul piano sociale, fra gli elettori della Lega e, in misura minore, di Forza Italia. Molto meno nella base del M5s, che, com’è noto, risulta trasversale, sul piano degli orientamenti politici e di valore.
Tuttavia, lo ripeto, non si tratta di una “sindrome italiana”. Perché colpisce l’intera Europa. Francia e Gran Bretagna per prime. Dove il Fn di Marine Le Pen e l’Ukip di Nigel Farage hanno allargato sensibilmente i loro consensi, associando il sentimento anti-europeo alla paura dello straniero. All’avversione nei confronti dell’euro. E degli immigrati. Quanto alla Germania, Angela Merkel, nei giorni scorsi, ha “fatto piangere” una ragazza palestinese, giunta da qualche anno in Germania e preoccupata per il futuro proprio e dei familiari. Le ha, infatti, spiegato, con la consueta franchezza: «Non possiamo dire “potete venire tutti”, perché non saremmo in grado di farcela e alcuni, poi, dovrebbero tornare indietro». Oppure restare ai confini. Dell’Unione – e, prima ancora, della moneta – Europea. Come i greci. E, in fondo, anche gli italiani. Vicini alla Grecia. Di poco a Nord dell’Africa. Ma (sempre più) a Sud della Germania.


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