Voto in Turchia Perché è storico
ISTANBUL Sarà la matematica a decidere il futuro della Turchia, domani. E un mezzo punto percentuale di scarto nelle urne basterà a fare da spartiacque tra la nascita di una repubblica presidenziale, con a capo il «sultano» Recep Tayyip Erdogan, e il tramonto del partito di governo, l’Akp (Partito Giustizia e Sviluppo), costretto, dopo 13 anni di sovranità assoluta, a venire a patti con le opposizioni.
A rompere le uova nel paniere di Erdogan potrebbe essere un partito filocurdo che, finora, non ha mai nemmeno superato l’(alta) soglia di sbarramento per l’ingresso nell’Assemblea nazionale turca: il 10%.
Ma da quando il presidente ha manifestato l’intenzione di cambiare la Costituzione per tornare a tutti gli effetti l’incontrastato capo dell’esecutivo, Selahattin Demirtas, carismatico leader dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) sembra essere l’unico in grado di fermarlo.
Già sfidante di Erdogan alle Presidenziali dell’anno scorso, Demirtas aveva totalizzato un modesto 9,7% di consensi, contro il 52% che ha determinato il trionfo del «sultano» e la sua determinazione a diventare il nuovo padre fondatore della Turchia, oscurando il mito di Mustafa Kemal Atatürk. Tra meno di due anni, prima ancora della fine del suo mandato presidenziale, Erdogan avrà battuto Atatürk e anche il successore, Ismet Inönü, quanto a durata al potere. Questa sfida è cruciale.
I numeri, dunque: l’Akp di Erdogan ha bisogno di 367 seggi parlamentari su 550 per realizzare la sua riforma costituzionale senza chiedere il benestare a nessuno. Risultato improbabile. Con 37 parlamentari in meno, ossia 330 su 550, l’Akp può varare la modifica costituzionale ma deve sottoporla a referendum popolare. I sondaggi dicono che oltre il 70% dei turchi voterebbe «no». Con 276 seggi, l’Akp può ricostituire il governo monocolore che regge la Turchia da 13 anni, ma nettamente indebolito. Un solo deputato in meno in aula e avrà bisogno di appoggi esterni per legiferare. Uno scenario catastrofico per un partito che dovrebbe esultare alla prospettiva di incassare non meno del 40% dei voti domani. Troppo poco.
Per accattivarsi quel 10% — o poco più — di elettorato che sembra avergli voltato le spalle, Erdogan non ha esitato a fare campagna elettorale, pur essendo il capo dello Stato e quindi formalmente al di sopra delle parti. Ha fatto leva sullo spirito patriottico e nazionalista: attenzione, c’è un complotto della stampa estera, New York Times e Guardian in testa, dei gay e degli armeni contro la Turchia.
A Demirtas, un 42enne che ha saputo calamitare in questi mesi le simpatie non solo curde e delle fasce deboli, come femministe e omosessuali, ma anche della sinistra giovanile, dei reduci di Gezi Park e di molti kemalisti, i sondaggi attribuiscono un risultato che oscilla tra il 9 e il 12%. Sotto il 10%, per la legge elettorale turca, i 50 seggi in cui spera l’Hdp finiranno all’avversario. Ma, anche se più robusti, i repubblicani del Chp e i nazionalisti dell’Mhp, non preoccupano l’Akp quanto l’ascesa del piccolo partito emergente. Tra il 23 marzo e il 19 maggio, secondo il rapporto dell’Associazione per i diritti umani turca, sedi e uffici dell’Hdp hanno subito 114 attacchi. Venerdì, al meeting finale del partito, a Diyarbakir, un attentato ha fatto due morti e un centinaio di feriti.
Oggi 56 milioni di turchi voteranno seguendo impulsi diversi: la paura dell’instabilità politica e di un peggioramento della situazione economica, il timore di una svolta ancora più autoritaria se l’Akp ottenesse i due terzi delle preferenze, la vertigine di potenziare un partito in grado, sì, di arginare i sogni di grandezza di Erdogan, ma anche pericolosamente affratellato alla causa curda.
Non a caso, rimbalza sui social network una foto di Demirtas ventenne nella divisa grigioverde del Pkk, l’organizzazione terrorista che, in trent’anni di guerriglia, ha provocato 40 mila vittime. A decidere il futuro della Turchia può essere oggi mezzo punto percentuale. O la paura.
Elisabetta Rosaspina
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