Usa-Messico, il gulag del Rio Grande
Sul confine tra Usa e Messico, storica frontiera fra benessere industriale contiguo al sottosviluppo, volge al termine l’«alta stagione» dei passaggi clandestini. I mesi fra marzo e giugno registrano tradizionalmente il traffico più intenso nei vasti tratti di deserto in Texas, Arizona, New Mexico e California che le comitive di migranti impiegano a volte molti giorni e notti di marcia ad attraversare.
L’anno scorso si stima che la traversata sia costata la vita a 307 persone. Numero esiguo (rispetto ad esempio al record del 2013 — 445 vittime), da non meritare molta attenzione da pubblico e stampa. Negli Usa, dove risiedono e lavorano circa 12 milioni di immigrati non autorizzati, sono stati fermati nell’ultimo anno fra i 300.000 e i 400.000 «clandestini». Malgrado la relative flessione degli ultimi anni dovuta alla crisi economica (nel 2005 i numeri erano quasi il triplo) il fenomeno persiste come dato acquisito che il governo si «accontenta» di gestire.
Poco si parla delle centinaia di migliaia di detenuti nei centri di «accoglienza». Il numero esatto è sconosciuto perché fluttua costantemente ma l’Ice (Immigration and customs enforcement) gestisce un centinaio di centri e appalta a circa 400 altre strutture carcerarie la detenzione degli immigrati, di solito in attesa di deportazione sommaria o di asilo, un iter che può richiedere mesi o anni. Numerose nelle carceri per immigrati sono le famiglie, donne e bambini.
Dallo scorso ottobre sono state fermati 17.000 genitori con bambini e 3.138 minorenni non accompagnati nel solo mese di marzo, in gran parte provenienti dai paesi del Centro America, Guatemala, Honduras e El Salvador, devastati dalla violenza e dalla povertà. Recentemente 78 madri detenute assieme a ai propri figli nel centro di Karnes, in Texas hanno fatto uno sciopero della fame protestando le condizioni in cui sono tenute senza imputazioni.
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