Tappeto rosso per Aung San Suu Kyi l’icona (offuscata) dei diritti

Tappeto rosso per Aung San Suu Kyi l’icona (offuscata) dei diritti

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PECHINO Il mito di Aung San Suu Kyi, la signora birmana che per la sua lotta democratica e gli anni trascorsi agli arresti ha ricevuto il Nobel per la Pace 1991, si è un po’ offuscato. L’ultimo a criticarla per il silenzio sulla tragedia del popolo Rohingya è stato il Dalai Lama. Ma in Cina, la leader dell’opposizione del Myanmar (l’antica Birmania) è popolare come non mai.
The Lady, come la chiamano con rispetto i suoi sostenitori, è arrivata ieri a Pechino su invito del Partito comunista. In programma cinque giorni di colloqui con i leader, dal presidente Xi Jinping al premier Li Keqiang: una visita che la stampa definisce «storica» per le relazioni tra i due Paesi. I giornali cinesi ricordano che in Occidente è considerata «un’icona della democrazia» e sostengono che questo invito dimostra la crescente fiducia e forza della Cina e la sua apertura in diplomazia. Soprattutto, a Pechino credono che il partito di Suu Kyi possa vincere le elezioni fissate per novembre nel Myanmar.
Rilasciata dagli arresti domiciliari nel 2010, Suu Kyi ha ripreso la sua lotta politica diventando parlamentare nel 2012, quando il suo partito, fondato nel 1988, è tornato legale, ha scritto nel profilo l’agenzia statale di notizie Xinhua , sorvolando con disinvoltura sul fatto che per tutti quegli anni le giunte militari birmane hanno trovato nella Cina un appoggio potente di fronte all’isolamento internazionale. Dopo le polemiche per il silenzio sulla tragedia dei Rohingya, qui La Signora è sicura che nessuno le chiederà di commentare sul suo silenzio tattico, dovuto al fatto che la minoranza musulmana è odiata dai birmani che li ritengono stranieri e li spingono a fuggire: i Rohingya non portano voti.
Sembra scontato che lei non solleverà (o comunque non potrà sollevare in pubblico) la questione di Liu Xiaobo, il Nobel per la Pace cinese condannato a 11 anni per sovversione. Per precauzione, da tutto il viaggio di Suu Kyi è stata esclusa la stampa internazionale e ieri le autorità hanno ribadito che lo scrittore dissidente non sarà liberato «perché non c’è alcun motivo di alterare il verdetto». Questa missione ha un grande peso politico-diplomatico e Suu Kyi sa di essere sotto osservazione. Ci sono tensioni al confine dove da mesi l’esercito birmano, per battere la guerriglia nel Kokang, spesso bombarda «per errore» villaggi cinesi dello Yunnan.
Sono passati i tempi in cui la Cina appoggiava la giunta militare birmana. Ora il governo del Myanmar, pur tra molte contraddizioni, ha compiuto un’apertura democratica, guarda ai rapporti con gli Stati Uniti e il Giappone per ottenere investimenti e la Cina rifà i conti. La Birmania è strategica perché garantisce un accesso all’Oceano Indiano e al Golfo del Bengala. Quindi, l’accoglienza speciale alla leader dell’opposizione è un messaggio chiaro al governo del presidente riformista Thein Sein.
La Cina ha grandi interessi economici nel Paese vicino, progetti per centrali elettriche, dighe e impianti minerari che sono stati contestati dalla popolazione locale, preoccupata dall’impatto ambientale e dal possibile sfruttamento. Per le stesse risorse si stanno muovendo naturalmente anche le industrie di Stati Uniti e India: un grande gioco con La Signora nel mezzo. Suu Kyi, da parlamentare, è andata tra gli abitanti di alcuni villaggi che rischiano di essere spazzati via per far posto a miniere di rame e dighe e ha detto che il governo birmano e quello cinese fanno bene a lavorare per il progresso dell’economia. Di fronte alle proteste e alla contestazione personale ha risposto: «Non ho mai cercato di ottenere la popolarità a tutti i costi, i politici devono dire anche le cose che non piacciono alla gente». Cose che non piacciono alla gente, ma convincono Pechino che è il caso di riceverla con tutti gli onori.


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